“Mi raccomando non andare mica a Piazzale Loreto”. Franco Loi ha 14 anni quando sua madre cerca di proteggerlo da un’immagine che gli resterà nella memoria per sempre: la strage nazifascista dei 15 Martiri del 10 agosto 1944. Fucilati e poi esposti al pubblico. Il poeta milanese li vede, si sofferma a lungo, ma non riconosce nessuno. Fra di loro, capirà dopo, c’è il suo maestro di scuola e un suo vicino di casa. L’autista di un commissario fedele al regime solo di facciata che in realtà portava le armi ai partigiani di nascosto. Loi racconta l’episodio con una testimonianza nel corso dell’iniziativa InContra Poeti, nel 2013. Ricorda i nazifascisti: vestiti di nero, armati, appartenenti alla Legione autonoma mobile Ettore Muti, molto attiva nel territorio del Milanese. Soprattutto, giovani. Al massimo 25enni. Ricorda lo scambio fra una donna che assiste alla scena e uno di loro. “Poveri figli”, dice lei in dialetto, riferendosi ai morti. “Se lo ripeti ti faccio fare la loro fine”, ribatte lui.
L’idea di andare sul posto era stata di un amico monarchico antifascista dello scrittore, suo compagno di scuola. Glielo aveva detto subito: “Quando usciamo andiamo a Piazzale Loreto. Hai sentito cosa è successo? Hanno ammazzato 15 partigiani”. Una volta là, Loi ricorda che non riusciva a staccare gli occhi dalla scena: l’amico lo invitava ad andare via, lui scuoteva la testa. In un’altra testimonianza raccolta da Anpi Milano, il poeta e scrittore racconta l’episodio con queste parole: “Erano tutti abitanti del rione, tra Teodosio e Loreto. Uno con le mani protese davanti alla faccia, come a proteggersi e gridare, un altro con gli occhi stravolti, bianchi, le labbra tumide, dure, e altri ancora con le dita lunghe come rami, e certi colli gialli tra camicie gualcite, magliette spiegazzate. I parenti non potevano onorare i loro morti. Nessun grido, nessun pianto. I fascisti erano lì, giovani e spavaldi. Ogni tanto provavo a distogliere gli occhi e vedevo quei giovani in camicia nera che fissavano la gente e sembrava volessero provocare. Ma la gente era immobile, come inchiodata, con gli occhi bassi e le spalle pesanti. Tutto pareva far parte di una scena irreale, completamente separata dall’ampiezza del cielo e di piazzale Loreto, che sotto il sole si allontanava verso viale Monza, viale Padova, via Porpora e quel Titanus imponente del comando nazista”. Loi fu molto amico di Sergio Temolo, all’epoca 15enne. Suo padre Libero è stato fra i morti dell’eccidio nazifascista: lui ed Eraldo Soncini cercarono di scappare in direzioni opposte, ma vennero raggiunti dagli spari.
Negli stessi anni, poco lontano, c’è un altro 14enne che conosce da vicino la Resistenza e che diventerà poi un nome celebre per Milano, nonostante le origini liguri: Marco Formentini, primo sindaco eletto dalla Lega in città, mancato il 2 gennaio, due giorni prima di Franco Loi. Vedetta, nome di battaglia Boy. Era incaricato di sorvegliare i movimenti del nemico e di avvisare il comando del suo distaccamento, la Brigata Garibaldi “Borrini”, Divisione Montorsaro (dai monti dell’Appennino Tosco-Emiliano). Raccontava quel periodo così: “Il distaccamento partigiano si insediò quasi subito, a 3-4 chilometri dal paese ed io me li facevo di corsa. Una volta, mentre portavo questi messaggi, vidi spuntare una colonna di SS e scappai correndo lungo un pendio mentre mi sparavano dietro. Ricordo che dopo qualche giorno di libertà nel mio paesello arrivarono dei giovani col fazzoletto del CLN – Comitato di liberazione nazionale – e fu una grandissima emozione. Dopo la Liberazione tornai a scuola ma con il certificato Alexander (conferito a chi si era distinto per aver combattuto con le forze alleate, ndr). Da allora lo spirito partigiano mi è sempre rimasto dentro”. E su quest’ultimo punto precisava: “Nel 1944 ero un ragazzino, avevo 14 anni. Ma erano sufficienti per essere Partigiani”. Stringe i rapporti con Tino Casali, fra i fondatori dell’Anpi, nonché presidente dal 2006 al 2009. Insieme inaugurano nel 1997 il Campo della Gloria al Cimitero Maggiore di Milano. Porta incisi i nomi dei 4mila Milanesi caduti per la Liberazione. Secondo Formentini, questo luogo era: “Simbolo della lotta e del valore partigiano, del sacrificio dei deportati e degli internati, dell’eroismo dei combattenti per l’indipendenza e la dignità della Patria Italiana”.
Per trovare un altro profilo protagonista della Resistenza milanese bisogna cercare fra i dipendenti dell’Alfa Romeo. Qui entra giovanissima – 16 anni – Antonietta Romano Bramo. La favorisce la sua conoscenza del tedesco. È convinta, all’inizio: avrebbe lavorato per il regime e per il Duce. Le cose cambiano poco dopo, come si legge in una nota della sezione Anpi di Cinisello Balsamo. Proprio sul posto di lavoro incontra una segretaria di direzione già inserita nella Resistenza. Da lì, comincia tutto. Entra nei Gruppi di Difesa della Donna, nel Movimento dei Comunisti Cristiani e nella 111a Brigata Garibaldi Sap, operativa nella zona Sempione di Milano. Sceglie il nome di battaglia: ‘Fiamma’. Fa moltissimo, ogni giorno. Distribuisce la stampa clandestina sul posto di lavoro, consegna medicinali ai partigiani nascosti in montagna, mantiene i rapporti con le altre fabbriche, spia l’attività dei tedeschi, incontra altre donne e cerca di reclutarle contro il regime. Consegna personalmente lettere firmate dai capi partigiani ai nazifascisti. Ne porta una all’Ospedale di Vialba (oggi: il Sacco). C’è scritto – si legge sempre sulla nota di Anpi Cinisello Balsamo – che il commissario Francisco della 183sima Brigata minaccia il direttore generale della struttura. Quest’ultimo si rifiuta di curare i reduci Italiani dalla Russia, perché considerati ormai inutili allo sforzo bellico. Quando arriva, all’ingresso, saluta i nazisti in perfetto Tedesco.
Nel corso degli anni ha sempre raccontato la propria esperienza nelle scuole, fin quando le è stato possibile. Ha ricevuto molti riconoscimenti. Il primo poco dopo il 25 aprile: l’8 settembre del 1945 il Comandante Generale delle Brigate Garibaldi Luigi Longo le conferisce il Diploma di Medaglia Garibaldina. Nel dicembre del 2020 Anpi Milano le ha conferito l’Ambrogino d’Oro poco prima che morisse. L’anno scorso, per i 70 anni dalla Liberazione, ha ottenuto il diploma di partigiana dal Ministero della Difesa. È stato l’ultimo anniversario che ha visto: è mancata lo scorso 10 aprile. La mattina di quel 25, nel 1945, fu incaricata di “riferire al Comando quali erano i punti della città in cui ancora si sparava: Quarto Oggiaro, Porta Volta, Porta Garibaldi”. Entrò nella fabbrica dove lavorava con il tricolore al braccio. Fu rimproverata da un uomo, perché – le disse – avrebbe dovuto aspettare le direttive dall’alto, dalla responsabile delle donne partigiane. Antonietta Romano Bramo deve aver sorriso: quella responsabile era proprio lei.