Il governo proprio oggi ha trasmesso al Parlamento il testo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Questo piano è articolato in “missioni”, la sesta riguarda la “salute”, per la quale si stanziano complessivamente 20,22 miliardi (davvero un bel po’ di soldi), con l’obiettivo di “rafforzare la prevenzione e i servizi sanitari sul territorio, modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario e garantire equità di accesso alle cure”.
Il Piano a prima vista sembra molto allettante perché:
– propone di investire nell’assistenza di prossimità diffusa sul territorio (1.288 case di comunità e 381 ospedali di comunità);
– potenzia l’assistenza domiciliare anche se per raggiungere solo il 10 per cento della popolazione con più di 65 anni, la telemedicina e l’assistenza remota, con l’attivazione di 602 Centrali Operative Territoriali;
– investe nell’aggiornamento del parco tecnologico e delle attrezzature per diagnosi e cura, con l’acquisto di 3.133 nuove grandi attrezzature, e nelle infrastrutture ospedaliere, ad esempio con interventi di adeguamento antisismico.
A fronte di tanta grazia di Dio, salvo l’aggiornamento del parco tecnologico e la telemedicina che per me sono soluzioni sacrosante, lascia perplessi e preoccupati il ragionamento politico che c’è dietro la proposta del governo.
La prima cosa che colpisce è che mentre tutto il Recovery plan si muove nella logica della riforma (soprattutto della pubblica amministrazione e della giustizia) e – pur con una pandemia in corso – la sanità non è annoverata tra gli “ambiti ” da riformare. Cioè pur con una pandemia la sanità resta quella che è quindi a sistema invariante anche se, la pandemia, rispetto a questo sistema ha messo in evidenza troppe magagne.
Questa scelta politica, che a mio avviso dipende prevalentemente dai limiti culturali e strategici del ministro Speranza, spiega gli orientamenti della missione 6 del governo, ossia il potenziamento dell’esistente: aggiungere a questo fantomatico territorio un po’ di ambulatori, chiamandoli in diversi modi, e un po’ di ospedaletti, gli stessi che probabilmente che abbiamo chiuso per inaffidabilità in questi anni. Continuano ad aggiungere strutture a strutture, senza preoccuparsi mai di riformare le prassi, i comportamenti, gli approcci, i metodi, il lavoro, le culture, le organizzazioni quindi le professioni.
Si parla di assistenza domiciliare ma non si spende una sola parola sulla medicina generale, sul medico di famiglia, sugli specialisti ambulatoriali, su come ridefinire i distretti. Si parla di “case” e mai di nuove culture, nuovi approcci, nuovi modi di operare, nuove professioni. Si parla di prossimità ma, a giudicare dagli standard sulle case, i cittadini per raggiungerle di km ne dovranno fare tanti.
Oggi non ci serve riempire il territorio di nuove “case” ci serve: riformare – alla luce delle necessità – un modo vecchio di intendere la tutela l’assistenza e la cura; riformare i modi di essere di questa sanità; ripensare le professioni e il loro modo di lavorare.
La seconda cosa che colpisce è il dispositivo logico che si vede dietro la missione 6, ossia quello di concepire il territorio in chiave anti-ospedaliera. La vecchia idea della riforma Bindi di vent’anni fa, miseramente fallita, che tante dismissioni ci è costata: il territorio è visto solo come un filtro per impedire la spedalizzazione. Siccome la pandemia ha bucato il territorio riempendo gli ospedali si tratta di aumentare le case nel territorio.
Ma oggi questo modo di vedere al territorio è ampiamente superato. Oggi il territorio deve integrarsi con l’ospedale non contrapporsi ad esso. I sistemi duali che pongono servizio contro servizio hanno fatto il loro tempo e non funzionano più: il territorio prima di tutto deve essere il luogo della costruzione della salute e non solo un argine alla spedalizzazione.
Ma forse la cosa più importante che non c’è nella missione 6 è che il territorio inteso come uno spazio in cui vivono le persone va sostituito con una idea più moderna di comunità, quale soggetto che partecipa in prima persona alla costruzione della propria salute. Cambiare territorio con comunità significa cambiare tutti i parametri di organizzazione dei servizi e soprattutto cambiare la loro governance.
La terza cosa che colpisce rasenta l’assurdità. La pandemia ancora prima della cura ha posto con estrema urgenza la questione della prevenzione: in futuro la comunità andrà protetta dai suoi nemici con una sorta di “scudo spaziale”. Nella missione 6 si parla genericamente di “rafforzare la prevenzione”, intendendo per prevenzione una vecchia metodologia e per servizi quelli definiti dalla riforma Bindi 20 anni fa.
La questione è un’altra: quella che si chiama banalmente prevenzione va reinventata in tutto e per tutto. Ci vuole il famoso cambio di paradigma. Non è possibile che si abbia una previsione metereologica capace di dirci a che ora pioverà nella nostra città e non si sia capace di predire il rapporto tra salute e malattia in una comunità, i rischi che una comunità corre. La nuova sfida non si chiama prevenzione ma predicibilità. La prevenzione è solo una tecnica di intervento tra altre tecniche di intervento.
Per tutte queste cose temo che 20 miliardi destinati alla sanità saranno sprecati, che aver deciso di non toccare le grandi contraddizioni della sanità sia un grave errore, che avremo una crescita della spesa sanitaria a zero contropartite che creerà rispetto al Pil nuovi problemi di sostenibilità, che le deboli scelte di questo governo non ci metteranno più al sicuro nei confronti del rischio di nuove epidemie.
La sanità esattamente come la PA e la giustizia andrebbe riformata di sana pianta. Ma questo governo non è in condizione di farlo.