“Il finanziamento pubblico alla ricerca non deve coincidere con il finanziamento ordinario agli atenei, ma essere una componente aggiuntiva per non incidere negativamente sulla funzionalità delle università oggi largamente sottofinanziate. Oggi si fa fatica a lavorare, in un anno riusciamo a portare avanti solo il cinque per cento dei progetti. Basti pensare, a titolo di esempio, che l’ateneo di Bari, dove insegno io, in dieci anni è passato da quasi 2000 professori ai circa 1400 di adesso, un terzo è scomparso”. Luigi Palmieri si esprime in qualità di coordinatore della Giunta del Collegio dei professori ordinari di Biochimica e parte sottolineando questa distinzione per commentare il dibattito innescato il mese scorso su Repubblica da Tito Boeri e Roberto Perotti in merito al criterio di ripartizione delle risorse statali alla ricerca universitaria.
Da una parte, la posizione dei due economisti, secondo cui i centri più meritevoli devono ricevere più soldi, affinché siano in grado di sopportare i costi fissi di laboratori e tecnologie d’avanguardia. Dall’altra, quella portata avanti dalla senatrice a vita e docente alla Statale di Milano, Elena Cattaneo, contraria alle “oligarchie della conoscenza” e sostenitrice di una “competizione equa”. Per i professori di Biochimica, impegnati in prima linea negli studi scientifici, la questione è mal posta e andrebbe affrontata in maniera diversa. “L’attuale finanziamento ordinario degli atenei, erogato in base a molteplici indicatori e distinto in due quote principali – spiega Palmieri, che ha una cattedra all’università di Bari -, dette rispettivamente quota di base, pari a circa il 70 per cento, stimata sul numero degli iscritti, e quota premiale, di circa il 30 per cento, riferita ai risultati della didattica e della ricerca, distribuisce agli atenei una somma annuale di poco meno otto miliardi complessivi che, al di là delle definizioni adottate, è largamente impiegata per le spese ordinarie, che consistono in costi fissi per il personale a cui vanno aggiunti i costi di consumo luce e gas e di ordinaria manutenzione, incluse le pulizie, che servono per garantire il funzionamento della struttura”. In pratica, riassume il professore, “la quota che dovrebbe essere destinata alla ricerca, a parte essere insufficiente, non viene utilizzata per sostenere direttamente questa attività”. La ricerca, chiarisce, “implica dei costi ulteriori rispetto a quelli che servono per pagare lo stipendio a professori e ricercatori e il funzionamento ordinario delle strutture. Questi riguardano, nel nostro settore, il rinnovamento del parco strumentale e la sua manutenzione, l’acquisto di materiale biologico, di reagenti e di tutto il materiale necessario per le sperimentazioni”.
Come superare l’impasse? Secondo Palmieri “è indispensabile incrementare il fondo ordinario affinché l’università possa mantenere le sue funzioni di base. Oltre a questo e separatamente, devono essere stanziati fondi per la ricerca, distribuiti attraverso bandi competitivi, a cadenza regolare, con finanziamenti adeguati, in modo che vincano i progetti migliori a prescindere dall’ateneo, e con una cabina di coordinamento. Evitando, come accade oggi, che enti e ministeri eroghino bandi spesso tra loro parzialmente sovrapposti”. In Italia la spesa pubblica in ricerca e sviluppo corrisponde allo 0,5 per cento del pil, nettamente al di sotto della media dell’Ue (1,41 per cento). “Per formare uno studente non basta trasferire il sapere, l’università produce conoscenza attraverso la ricerca che essa stessa genera. L’università per costituzione è il rapporto inscindibile tra didattica e ricerca”.
L’appello del coordinatore del Collegio degli ordinari di Biochimica si allinea con il “piano Amaldi”, dal nome dal suo primo firmatario, il fisico Ugo Amaldi, presentato al governo Draghi, in cui si propone di aumentare “in cinque anni dello 0,25 per cento del pil, in modo strutturale e permanente, l’investimento dello Stato in ricerca passando dallo 0,5 allo 0,75 per cento e raggiungendo così l’investimento della Francia di oggi. Un piano che però, nella fase di scrittura del Recovery, il governo ha accantonato.
Il documento sottoscritto da 14 scienziati chiedeva invece di aggiungere al bilancio ogni anno un miliardo ai nove attuali per arrivare nel 2025 a un investimento di 14 miliardi. Un’operazione che da qui al 2025 “richiede complessivamente 15 miliardi”. “Il Paese – chiude Palmeri – deve fare uno sforzo per aumentare il numero di laureati, il nostro futuro sarà qualificato se avremo una società scientificamente e tecnologicamente avanzata”. Al momento, però, questo sforzo – sul piano delle risorse stanziate – non c’è.