Confermata la sentenza di primo grado, con l’assoluzione di Marco Cappato e Mina Welby dalle accuse di istigazione e aiuto al suicidio perché il fatto non sussiste (nel primo caso) e non costituisce reato (nel secondo). È la decisione della Corte d’assise d’appello di Genova sul caso del suicidio assistito di Davide Trentini, che accoglie la richiesta dello stesso procuratore generale di Genova, Roberto Aniello. Massese, 53 anni, affetto da sclerosi multipla a decorso cronico progressivo che lo aveva reso incapace di svolgere ogni attività, nel 2016 Trentini si era rivolto all’associazione Luca Coscioni per mettere fine a una sofferenza lunga un quarto di secolo. Cappato – il tesoriere dell’associazione – si era occupato della raccolta dei fondi necessari, mentre Welby – la presidente – lo aveva accompagnato in ambulanza alla clinica Lifecircle di Liestal, in Svizzera, dove il 13 aprile 2017 assumeva in autonomia il farmaco eutanasico. Il giorno dopo entrambi si erano auto-denunciati ai Carabinieri. Nel processo di primo grado, concluso il 27 luglio scorso, il pm di Massa Marco Mansi aveva chiesto la condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione ciascuno.
La corte, però, aveva deciso per l’assoluzione in base a quanto deciso dalla Consulta nell’analoga vicenda di Dj Fabo: l’articolo 580 del codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio, è incostituzionale nella parte in cui “non esclude la punibilità di chi (…) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”. Secondo i giudici massesi, poi, per “trattamento di sostegno vitale” deve intendersi non soltanto una dipendenza da macchinari, bensì “qualsiasi trattamento sanitario alla cui interruzione conseguirebbe, anche se non in maniera rapida, la morte” . Come il “delicato e precario” cocktail di farmaci che teneva aggrappato alla vita Davide Trentini. Ed è proprio questa l’impostazione che lo stesso pg Aniello – insieme agli avvocati Filomena Gallo e Giandomenico Caiazza – ha chiesto alla Corte d’assise d’appello di Genova di confermare, sconfessando uno a uno i motivi d’impugnazione del collega massese in una memoria che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare.
“Il processo – premette il magistrato – implica tematiche di grande rilievo sotto il profilo etico e religioso, prima ancora che giuridico”, poiché “vengono in considerazione principi fondamentali quali la tutela della vita e il diritto di autodeterminazione”. Rispetto al primo motivo d’appello, con cui il pm Mansi contesta l’assoluzione di Cappato e Welby dall’accusa di istigazione al suicidio, Aniello rilevava che le condotte indicate come “rafforzative” dell’intenzione di suicidarsi “sono comportamenti che hanno semplicemente agevolato la realizzazione del suicidio, innestandosi su una ferma autodeterminazione del Trentini, che non era suscettibile di essere rafforzata, ma soltanto di trovare ausilio per poter essere eseguita”. Le censure del pg sono nette anche sul secondo motivo, con cui si metteva in dubbio l’irreversibilità della condizione di Trentini portando a sostegno l’esempio del fisico Stephen Hawking, sopravvissuto molti anni nonostante la sclerosi laterale amiotrofica: “L’irreversibilità – si legge – attiene alla patologia, come esplicitamente affermato dalla Corte Costituzionale. Ciò significa che deve trattarsi di malattia che, mediante le terapie disponibili, non sia suscettibile di regressione. Questa situazione prescinde, di per sé, dalla evoluzione della malattia in un senso ineluttabilmente letale, né assume alcuna rilevanza il fatto che la morte possa sopraggiungere solo dopo molto tempo”.
Il terzo e il quarto motivo, invece, affrontavano il decisivo tema della dipendenza di Trentini dai trattamenti di sostegno vitale. In proposito Aniello riporta le parole di Mario Riccio, l’anestesista che nel 2006 aiutò a morire Piergiorgio Welby, consulente per la difesa nel giudizio di primo grado: “La sopravvivenza del Trentini dipendeva da un sottile equilibrio del dosaggio dei farmaci”, scrive Riccio nella relazione depositata agli atti del processo. “Una riduzione avrebbe determinato una situazione di sofferenza e di scompenso cardiaco che ne avrebbe accelerato il decorso clinico fino alla morte. Un incremento, in particolare del dosaggio di Fentanil (un antidolorifico cento volte più potente della morfina, ndr) ne avrebbe causato il decesso in tempi brevi se non immediati”. Pertanto, conclude il pg, “appare senz’altro condivisibile la conclusione del giudice di primo grado, secondo cui il trattamento farmacologico della malattia del Trentini costituiva una condizione imprescindibile per la prosecuzione della vita”, sussistendo quindi il criterio fissato dalla Consulta per la non punibilità dell’aiuto al suicidio.