È il 3 agosto del 2011 quando la ventenne genovese precipita dal sesto piano di un hotel a Palma di Maiorca, mentre si trova in vacanza con due amiche. Gli imputati erano stati condannati in primo grado, assolti in secondo. Verdetto che era stato annullato dalla Cassazione. Due reati sono andati prescritti
Condannati a tre anni per tentata violenza sessuale di gruppo Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi imputati nel processo sulla morte di Martina Rossi. È il 3 agosto del 2011 quando la ventenne genovese precipita dal sesto piano di un hotel a Palma di Maiorca, mentre si trova in vacanza con due amiche. Scivola nel tentativo di scavalcare dal terrazzino della camera a quello a fianco e, sbrigativamente, le autorità spagnole archiviano il caso con l’ipotesi di suicidio, versione a cui i genitori e tutti quelli che conoscevano la ragazza non credono neanche per un momento. La stanza dalla quale fugge la giovane, studentessa al primo anno di Architettura a Milano, è quella di due ragazzi di Castiglion Fibocchi (Arezzo), Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, i quali nel 2018 vengono condannati in primo grado dal Tribunale di Arezzo a sei anni per tentata violenza sessuale di gruppo e morte come conseguenza di altro reato. Tre anni per ognuno dei due delitti, mentre la tagliola della prescrizione era già caduta sull’omissione di soccorso.
Al ritorno dalla notte in discoteca, la ragazza sarebbe salita in camera dei due giovani perché nella sua le amiche erano con gli altri due aretini della compagnia (ora imputati a loro volta con l’accusa di falsa testimonianza). Venti minuti dopo i due cittadini danesi alloggiati nella camera accanto racconteranno di aver sentito un urlo straziante. “Martina non muore sul colpo – come racconta suo papà Bruno a Ilfattoquotidiano.it confrontandosi con la durezza delle carte processuali – Sono le 6.45 del mattino quando precipita in una vasca e, per 40 minuti, nessuno scende a prestarle soccorso”. Il corpo di Martina verrà trovato a terra senza ciabatte né pantaloncini, con evidenti segni sul corpo che gli stessi imputati sosterranno di aver causato nel tentativo di evitare che, secondo la loro linea difensiva, si buttasse giù di proposito.
A seguito della sentenza di primo grado, gli avvocati dei due giovani dai quali Martina, secondo l’accusa, tentava di scappare, presentano appello. Nel 2018 il reato di “morte come causa di altro reato” finisce in prescrizione, come avvenuto in precedenza per “l’omissione di soccorso”, lasciando in piedi solo l’accusa di “tentata violenza sessuale di gruppo”, delitto la cui prescrizione è prevista a dieci anni dai fatti, al massimo un paio di mesi dopo. Per questo motivo, anche a seguito delle polemiche dello scorso anno, la presidente di sezione decide di anticipare le udienze e la sentenza della Corte d’appello di Firenze arriva lo scorso 9 giugno. Per i giudici Martina non sfuggiva da uno stupro, il tentativo di abuso “non può neppure del tutto escludersi – motivavano l’assoluzione lo scorso luglio – ma “le modalità della caduta” non sarebbero state coerenti con l’ipotesi del tentativo di fuga.
La procura generale di Firenze impugna le motivazioni e lo scorso 21 gennaio la Cassazione annulla l’assoluzione degli imputati e ordina un nuovo appello: “La sentenza impugnata non è capace di resistere – si legge nelle motivazioni – considerata sia l’incompletezza, sia la manifesta illogicità, sia la contraddittorietà della motivazione redatta dal Collegio in appello”. L’accusa aveva chiesto tre anni di reclusione, stessa richiesta era stata avanzata dai legali dei genitori di Martina, parti civili. Ora ci sarà da attendere le motivazioni, entro cinque mesi, e il probabile nuovo passaggio in Cassazione prima che arrivi agosto e la prescrizione, a dieci anni dalla morte di Martina.