È partita da qualche giorno la campagna “Fermiamo le porte girevoli”, promossa dall’organizzazione no profit The Good Lobby e da Il Fatto Quotidiano. Il fenomeno del transito diretto da un incarico pubblico di rilievo a uno altrettanto importante nel mondo delle imprese comporta senza dubbio dei pericoli in termini di tutela del bene comune e di correttezza dei rapporti economici.

È chiaro che questi passaggi repentini sono ancor più problematici se fatti in settori collegati al ruolo ricoperto in politica o nell’amministrazione pubblica. Per intenderci, un sottosegretario alla Difesa che diventa dirigente in una società che produce armi suscita naturalmente delle perplessità. Senza pensare a sottese dinamiche corruttive, l’azienda sarà ben felice di accoglierlo nei suoi ranghi per avvantaggiarsi del prezioso “bottino” di conoscenze influenti e di informazioni privilegiate.

Va detto che il fenomeno esiste ovunque, ma l’Italia è uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea privo di una normativa organica sulle sliding doors. Nell’ordinamento esistono qua e là dei divieti, e non è detto che vengano effettivamente rispettati. Secondo The Good Lobby sarebbe fondamentale arginare in ogni campo le porte girevoli rendendo obbligatorio un “periodo di raffreddamento” prima di poter assumere cariche dirigenziali in enti privati o svolgere attività di lobbying. In Francia, per esempio, sono puniti con la detenzione fino a tre anni i membri del Governo e i dirigenti pubblici che vengono assunti o forniscono consulenze in enti privati nei tre anni successivi alla cessazione dell’incarico pubblico.

Con specifico riferimento al mondo militare, ho sempre guardato con viva curiosità a questi misteriosi salti – è come se ci fosse un “occulto ufficio di collocamento”, ipotizzavo con un po’ di fantasia – fatti finanche da ufficiali coinvolti in gravi vicende giudiziarie. Li ho sempre interpretati come una conferma della loro scarsa identificazione con gli scopi dell’organizzazione alla quale appartenevano. Ma mi rendo conto ora che la questione è ben più complessa e preoccupante.

Certamente non esiste oggi alcuna regola che vieti perfino a un generale a quattro stelle di congedarsi e di risvegliarsi il giorno dopo megadirigente in un’industria di armi. Il Codice dell’ordinamento militare – lo stesso che proibiva i sindacati con una norma incostituzionale – nei suoi 2272 articoli non contiene alcuna limitazione di questo tipo.

Nella scorsa legislatura, un progetto di legge dal titolo “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, in materia di limiti all’assunzione di incarichi presso imprese operanti nel settore della difesa da parte degli ufficiali delle Forze armate che lasciano il servizio con il grado di generale o grado equiparato” (primo firmatario il professore ed ex deputato Carlo Galli) introduceva, per i generali che avessero svolto attività di procurement militare, il divieto di assumere incarichi dirigenziali presso imprese operanti nel settore degli armamenti nei tre anni successivi alla data della cessazione dal servizio permanente. In caso di violazione, sarebbero scattate pesanti sanzioni amministrative sia per l’alto ufficiale sia per l’azienda privata.

La proposta, approvata alla Camera nel marzo 2015, si è poi incagliata al Senato, forse per qualche trasversale “segreta riserva” (espressione usata proprio da Galli) nutrita all’interno delle forze di governo e di opposizione.

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