Il regime egiziano non conosce pietà, neppure in pieno periodo di Ramadan, e infligge la pena di morte per impiccagione a 9 dei 20 imputati nel processo dell’assalto, otto anni fa, ad una stazione di polizia nel governatorato di Giza. Alla vigilia dell’inizio del processo ai quattro ufficiali (presto il numero potrebbe aumentare) della National Security Agency accusati di aver preso parte al rapimento, alle torture e alla morte di Giulio Regeni, il governo di al-Sisi risponde con l’ennesimo, durissimo provvedimento.

I 9 detenuti sono stati impiccati lunedì all’interno del carcere di Wadi al-Natrun, un centinaio di chilometri a nord del Cairo, dopo che la condanna a morte nei loro confronti era stata emessa addirittura nel luglio del 2017. Le esecuzioni sono avvenute nel silenzio più totale e la notizia è stata comunicata ai familiari a cose ormai fatte. Da qui la ferma presa di posizione delle principali organizzazioni che da anni si battono per la tutela dei diritti umani in Egitto. Tra loro l’Ecrf, la ong che segue gli interessi legali della famiglia Regeni, l’Eipr dove Patrick Zaki, ora in carcere da quasi quindici mesi, ha lavorato prima di iniziare gli studi universitari a Bologna, il centro anti-torture el-Nadeem, l’Afte che segue il caso dell’altro studente egiziano arrestato al rientro dall’Austria e altre. “Condanniamo con la massima fermezza le esecuzioni da parte dell’autorità dopo un processo segnato da gravi violazioni delle norme giuridiche, oltre al fatto che le condanne siano state attuate in periodo di Ramadan e senza avvisare le famiglie e gli avvocati delle vittime” si legge in un documento unitario diffuso ieri.

Non è il primo e non sarà l’ultimo sopruso messo in atto dal regime egiziano in materia di diritti processuali. I fatti che hanno portato agli arresti risalgono all’agosto del 2013, forse uno dei periodi più neri per la democrazia nel Paese nordafricano. Il generale Abdel Fattah al-Sisi, fino a pochi mesi prima Ministro della Difesa del governo Morsi (Fratellanza Musulmana), da pochi mesi aveva assunto il potere con un golpe e represso nel sangue le proteste. Il 14 agosto, giorno successivo ai massacri delle piazze Raba’a e el-Nahda, al Cairo, un gruppo di uomini ha preso d’assalto la stazione di polizia di Kerdasa (Giza) uccidendo 12 poliziotti e 2 civili.

Successivamente i presunti responsabili sono stati arrestati e, appunto il 2 luglio del 2017, è arrivata la sentenza nei confronti di oltre 160 imputati: 80 ergastoli, 34 condannati a 15 anni di reclusione, 21 assolti e 20 condanne a morte. Sul patibolo, perché di questo si deve parlare, l’altro ieri sono finiti: Abdul Rahim Abdul Halim Abdullah Jibril (81 anni), Ali Ali Al-Kanawi, Mustafa Mohammed Yusuf al-Qurash, Issam Abdul Muti, Abu Amira Laksh, Badr Abdul Nabi, Mahmoud Juma Zaqzouq, Walid Saad Abu, Amira Abu-Da’da: “I familiari delle vittime sono stati avvisati a cose fatte dall’autorità penitenziaria e chiamati per recuperare i corpi e poi seppellirli – proseguono le organizzazioni dei diritti umani con sedi al Cairo -. Durante il percorso giudiziario si sono verificate numerose violazioni dei diritti degli imputati. Gli avvocati non hanno potuto seguire la fase delle indagini e durante il processo è stato difficile per loro entrare in contatto con i rispettivi assistiti. L’uso della pena di morte in maniera così ampia è legato proprio alla mancanza di garanzie processuali eque, inoltre nel caso specifico è mancata la trasparenza nelle informazioni. Per questo chiediamo che il sistema delle esecuzioni vada fermato e analizzato all’interno di un dibattito serio e costruttivo. Il numero dei reati penali che prevede la pena di morte deve assolutamente essere limitato a pochi casi”.

Nel 2020 l’Egitto si è piazzato sul gradino più basso del podio, tutt’altro che virtuoso, del numero di sentenze capitali portate a termine stando ad un report di Amnesty International. A livello mondiale si è verificato un calo del 26%, riduzioni sensibili in Arabia Saudita, Iran e Iraq, mentre in Egitto, sempre secondo Amnesty, il numero è addirittura triplicato: nel 2019 erano state 32, lo scorso anno ben 107 di cui due terzi solo nei mesi di ottobre e novembre. L’anno in corso non è assolutamente partito bene in questo senso, con 17 esecuzioni nei primi venti giorni di marzo e l’altro ieri i 9 casi in contemporanea a Wadi al-Natrun.

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