Il capo di gabinetto che con il suo libro "Io sono il potere" ha rivendicato la supremazia degli alti dirigenti ministeriali rispetto ai politici racconta il cambio della guardia a Palazzo Chigi. E spiega perché neanche Super Mario e i suoi super esperti saranno in grado di piegare le logiche dell'apparato. Dal nuovo ministero per la transizione ecologica alla gestione dei fondi del Recovery Plan, che attualmente è "un minestrone"
I ministri tecnici possono incidere ben poco. Il nome di Mario Draghi può essere validamente speso all’estero, ma a livello amministrativo interno è “pressoché irrilevante“. Anche nella gestione concreta del Recovery Plan, che attualmente è “un minestrone“, e il coinvolgimento di società di consulenza private serve solo a dare una “patina di efficientismo“. Ce n’è anche per i “vanagloriosi” presidenti delle Regioni, spesso artefici del caos nella gestione della pandemia da Covid-19. Queste e altre osservazioni acuminate non vengono dalla (scarsa) opposizione all’attuale governo, ma dal cuore stesso del potere romano. In questa intervista, un potente capo di gabinetto racconta, con gli occhi degli altissimi burocrati e dirigenti ministeriali, la resistibile ascesa dei “tecnici” subentrati al governo Conte. Quasi un aggiornamento del suo libro, anonimo, Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto, curato dal giornalista della Stampa Giuseppe Salvaggiulo e pubblicato da Feltrinelli nel 2020. Di cui ripete il mantra: i burocrati sanno, i politici no; i burocrati restano, i ministri passano (in fretta).
Draghi e alcuni suoi ministri sono stati invocati come super-tecnici in grado di risolvere problemi al posto dei politici. Lei come ha accolto il loro arrivo, e come lo hanno accolto i suoi colleghi? La funzione tecnica non spetterebbe a voi?
Il rapporto tra tecnica e politica è questione antica. Bisogna sapere che, per ragioni diverse, i dirigenti ministeriali non vedono di buon occhio né i politici né i tecnici, d’altra parte sanno che entrambi saranno ministri transitori. Quanto a noi capi di gabinetto, la definizione di tecnici non ci appartiene. Sarebbe riduttiva. La lasciamo volentieri a manager e professori universitari. Dopo le prime settimane, anche i tecnici più accreditati si accorgono che in un ministero riusciranno a incidere ben poco. Tanto più in ministeri di nuovo conio o da riorganizzare per una redistribuzione delle competenze. Spostare una direzione generale richiede almeno sei mesi”.
In un’intervista a FQ MillenniuM ci fece capire che anche gli alti dirigenti ministeriali vengono consultati durante una crisi di governo. E’ successo anche questa volta? Può raccontarci qualcosa in proposito?
Questa è stata una crisi anomala per diversi motivi: contesto, impedimenti logistici, tempistica. La soluzione è arrivata con un’accelerazione presidenziale caratterizzata da modalità senza precedenti, tali da sorprendere gli stessi partiti. Fondamentale è stato il ruolo del Quirinale, nell’assistenza al premier incaricato, nonché quello di alcuni alti dirigenti ministeriali. Uno di loro è diventato il ministro più importante del governo (il riferimento è a Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo Draghi, già capo di gabinetto del Ministero dell’Economia e delle finanze, ndr).
Cosa pensa della gestione dei fondi del Recovery plan? Serve l’apporto di manager esterni e la consulenza di una specializzata, o il governo italiano avrebbe al proprio interno le competenze per gestirlo?
Alle difficoltà di un piano di investimenti straordinario con tempi di attuazione ridotti si è aggiunta la tipica frammentarietà italiana: gestito da due governi, coinvolgendo strutture diverse, con il contributo delle Regioni. Nell’impossibilità di fare progetti nuovi, chiunque ne avesse uno in un cassetto è stato tirato dentro. Le consulenze affidate a società esterne servono a spolverare con una patina di efficientismo questo minestrone, oltre che a cautelarsi come si fa nelle grandi aziende private. Ma il problema principale sarà la capacità di spesa, considerando che l’amministrazione pubblica zoppica nella spesa dei fondi ordinari con un orizzonte temporale più lungo.
Data la sua conoscenza della macchina politica e amministrativa, lei che cosa suggerirebbe alla politica per migliorare appunto la capacità di spesa? Come facciamo a uscire dal paradosso che, in anni di tagli ai fondi pubblici – salvo l’emergenza Covid, ovviamente – ci sono soldi che non riusciamo a spendere?
Non riusciamo a spendere perché abbiamo catene di decisione e di controllo troppo lunghe e articolate. Per esempio se ci sono soldi per un’autostrada a fronte di dieci progetti potenziali, non se ne sceglie uno ma si finanziano pro quota tutti e dieci, facendo partire dieci cantieri. Che inevitabilmente saranno poi interrotti, riaperti, rifinanziati in tempi lunghi e incerti, con fallimenti di imprese, necessità di varianti, revisioni prezzi, cambio di regole sui lavori pubblici, modifica di posizioni degli enti locali
Chi ha officiato l’operazione Draghi afferma di averlo fatto per dare al Paese una guida più autorevole. Un diverso presidente del consiglio può davvero fare la differenza in questa specifica emergenza, o contano di più i ministeri, i loro apparti, il sistema sanitario, gli approvvigionamenti di vaccino…?
Il Covid ha fatto scoprire a tutti problemi che noi conoscevamo da tempo: poteri diffusi e frammentati, conflitti Stato-Regioni, amministrazione inefficiente. L’autorevolezza personale di Draghi si spende soprattutto a livello internazionale. A livello amministrativo è pressoché irrilevante. A livello politico ha avuto un impatto nella prima fase, ma come si vede la raccomandazione ai ministri di parlare solo a cose fatte è già dimenticata”.
Questo ci porta alla questione delle Regioni. Lei nel titolo del libro si definisce “il potere”, un potere eminentemente romano. Come giudica l’autonomia regionale, messa pesantemente in discussione a causa dell’andamento in ordine sparso delle politiche sanitarie, dal tracciamento alle vaccinazioni?
Il potere è romano, ma le Regioni si sono ampiamente romanizzate. Diverse competenze, stessi metodi con variazioni dipendenti dalla geografia locale, anche politica. E un’aggravante: i ministri, in media, durano un anno o poco più. I presidenti delle Regioni, o governatori come amano definirsi con vanagloria che evoca satrapie da impero persiano, almeno cinque anni.