“Caro De André, sono invecchiato nella quasi totale ignoranza del suo talento e me ne scuso”. È il 1997 e Mario Luzi sente l’esigenza di scrivere a Fabrizio De André. Di confessargli, a 83 anni, che sì, per larga parte della sua vita non lo ha considerato. Salvo poi “andare alla ricerca di cassette e registrazioni per ricostruire una storia, la sua”. In quegli anni – De André sarebbe morto di lì a breve, l’11 gennaio del 1999 – il mondo accademico iniziava a domandarsi se i cantautori avessero diritto di cittadinanza nel mondo dei poeti. E Luzi, poeta tra i poeti più influenti del Novecento, non ha dubbi: “La sua poesia c’è”, dice a De André nella lunga e articolata lettera. E questi, il 4 ottobre, gli risponde. Gli risponde, innanzitutto, ringraziandolo, e con l’umiltà che gli era propria, aggiunge: “L’incantesimo (di mettere le parole in musica, ndr) troppo sovente si fa specchio della propria radiosa apparenza e solo raramente concede agli chansonniers spiragli a elevate intuizioni musicali e letterarie”.
La nave di Teseo ha inaugurato, da metà aprile, una nuova collana, in collaborazione con la Fondazione De André Onlus, intitolata I libri di Fabrizio De André. Una delle due prime uscite, Accordi Eretici, a cura di Bruno Bigoni e Romano Giuffrida (256 pp. 17 €), si apre proprio con lo scambio epistolare tra il poeta fiorentino e il cantautore genovese. Uno squarcio di rara bellezza, per gli amanti di De André e della storia della letteratura italiana, a testimonianza della forza e del carisma intellettuale dei due autori, che, riletto ora, ci porta fuori dal tempo e su mondi senz’altro più densi di significati. L’altro volume si intitola Volammo davvero, è curato da Elena Valdini (464 pp. 20 €) ed è la riproposizione, arricchita, dell’omonimo libro uscito per Rizzoli nel 2013. Si tratta di due testi molto diversi tra loro e, per certi versi – ed è questo la vicendevole ricchezza – complementari. Accordi Eretici è un libro su De André; Volammo davvero è un libro con De André.
Nel primo ci sono soprattutto gli “esperti” – se così si possono definire – che pur muovendosi dai differenti campi d’indagine a cui appartengono, analizzano il cantautore genovese sotto tre luci distinte: l’intellettuale, il poeta e il musicista. È un libro che entra piano nella produzione di De André, con l’analisi socio-politica di Bigoni e Giuffrida, fino a spalancarne la poetica su orizzonti nuovi e sorprendenti. Sono i casi, questi, di Liana Nissim, che ci parla del ruolo della donna nelle canzoni di Faber; o di Umberto Fiori, che ci parla della sua voce, arrivando a dire che quest’ultima “ridisegna lo spazio della musica leggera, lo sottrae alla platealità […] per portarlo a una concentrazione, a un raccoglimento, a un’interiorizzazione estrema”, tanto da dare “l’impressione, a volte, che invece di uscire le parole entrino nella bocca di chi le canta”; o, infine, di Luigi Pestalozza, che ci regala un affresco del De André autore, cantante e musicista, “sempre attento a farsi ascoltare come si fanno ascoltare i narratori epici che non coinvolgono i fatti narrati nelle emozioni o asprezze o dolcezze delle loro storie, bensì li espongono con pacatezza come se stessero al di sopra del tempo, così che ciascuno possa ragione, pensare, senza alcun nervosismo mentale, su quello che ascolta”.
Come detto, Volammo davvero è un libro con De André. Nel senso che, leggendolo, si ha la sensazione di potersi avvicinare al De André-uomo, oltreché all’artista. Questo perché molti dei contributi che lo compongono (il volume nacque come raccolta del dialogo ininterrotto tra De André, gli amici, i critici musicali e i fan nei primi cinque anni di vita della Fondazione De André Onlus, dal 2000 al 2005) sono fatti da persone che gli erano state vicine e che con lui avevano lavorato. Rispetto all’edizione uscita con Rizzoli, il volume è arricchito da una profonda introduzione di Sandro Veronesi, per il quale la raccolta di voci di Volammo davvero è “la dimostrazione che Fabrizio è quel che tu hai bisogno che sia, che i limiti di Fabrizio sono sempre solo i limiti di chi lo avvicina, perché qualunque cosa si riesca a concepire di chiedergli, lui la dà – anzi, l’ha già data”. Tipo, nel caso di Veronesi, il paciugu in agruduse de lèvre de cuppi, una delle pietanze descritte da De André in Crêuza de mä, cioè il gatto, di cui si è cibato Veronesi, più di una volta, a sua insaputa, in una bettola parigina.
Da leggere, e rileggere, le parole dell’amico fraterno di Faber, Cesare Romana, per il quale il cantautore genovese “non se n’è mai andato, è ancora qui”. Ma anche gli aneddoti – spiritosi e struggenti – di Guido Harari, per vent’anni fotografo personale di De André: come quella volta – famosa – in cui ritrasse De André, durante il tour con la Pfm, mentre dormiva sdraiato a terra in un corridoio accanto a un termosifone e lui commentò la foto parafrasando Il pescatore: “Col culo esposto a un radiatore s’era assopito il cantautore”; o come quella volta in cui si trovò da solo, con Faber, nella cucina della cascina all’Agnata, e lui gli cantò in anteprima Le nuvole, e Harari non ebbe il coraggio di tirare fuori la macchina fotografica.
Da leggere, e rileggere, anche l’intervista di Vincenzo Mollica a Nicola Piovani, che racconta di quando a 23 anni venne chiamato da De André per aiutarlo nelle musiche di Non al denaro, non all’amore né al cielo e non gli sembrava vero; quella di Valeria Gandus ad Adriano Sofri, all’epoca ancora in prigione, che riflette sulla condizione dei detenuti e racconta di quando, il giorno della morte di De André (i due si erano conosciuti negli anni Settanta) spalancò la finestra e diffuse per tutto il carcere le sue canzoni; infine, l’intervista di Elena Valdini a Fernanda Pivano, che conosceva De André come pochi altri, e che parla della sua vita da artista (come quando le cantò a cappella, fingendo di dimenticarsi la chitarra fuori dal suo appartamento, l’album tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master e lei scoppiò a piangere), del De André-uomo e del De André-poeta.
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