Potrebbe essere la prescrizione a salvare la nomina di Massimo Parisi a capo segreteria tecnica del Ministero degli Affari regionali. Ora è la stessa Presidenza del Consiglio a volerci veder chiaro, dopo l’articolo del Fatto che raccontava la scelta del ministro Gelmini di nominarlo nonostante la condanna con interdizione dai pubblici uffici. Chigi ha chiesto ai suoi uffici giuridici di verificare se l’incarico conferito all’ex deputato e storico braccio destro di Denis Verdini risponda ai requisiti di legge. Entrambi sono stati condannati nel 2018 per bancarotta con interdizione perpetua dai pubblici uffici (a luglio deve celebrarsi l’appello), ma la pena accessoria potrebbe essere estinta insieme ad alcuni reati. Per completare la verifica, fa sapere il capo di Gabinetto Vincenzo Nunziata, serviranno alcuni giorni. In concreto i tecnici di Chigi dovranno verificare se i trascorsi giudiziari (e i processi a venire) siano un ostacolo per la compatibilità/conferibilità dell’incarico assegnato per via politica e fiduciaria dal ministro.

La verifica disposta da Chigi anticipa di fatto il giudizio di controllo della Corte dei Conti sulla stessa nomina, ma proprio davanti alla Corte (sezione Toscana) Parisi e Verdini sono chiamati prossimamente a rispondere di danno erariale in merito ai fondi per l’Editoria della Presidenza del Consiglio indebitamente percepiti dai giornali della Società Toscana Edizioni. Difficile anticipare l’esito anche perché la posizione di Parisi dal punto di vista giudiziario è complessa e articolata quasi quanto quella di Verdini e il suo storico difensore, il senatore forzista Francesco Paolo Sisto, nel frattempo è stato nominato sottosegretario alla Giustizia e fa sapere che “l’incarico di governo comporta per legge la sospensione dell’attività forense”.

Al 2017 risale la prima condanna a seguito di uno dei filoni scaturiti dal crac del Credito cooperativo fiorentino sulle provvidenze all’editoria incassate dalle società editoriali di Verdini che facevano capo alla Ste, società dichiarata fallita nel 2014 di cui Parisi era consigliere e “amministratore di fatto”. Non prima, stando alla sentenza del Tribunale di Firenze, di averla svuotata di 2,6 milioni di euro poi finiti sui conti di Verdini e Parisi, realizzando così la bancarotta fraudolenta e la truffa ai danni dello Stato per le quali il deputato di Ala è stato condannato una prima volta a due anni e sei mesi. Furono anche dichiarati “incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione per un arco temporale pari alla durata della pena a ciascuno inflitta”.

L’appello nel 2018 aveva confermato le condanne infliggendo a Verdini sei anni e dieci mesi ed elevando a cinque la pena comminata a Parisi. Quel verdetto, confermando l’interdizione, aveva però annullato per prescrizione alcuni capi di imputazione tra i quali la truffa allo Stato per due anni di contributi all’editoria relativi al 2008 e 2009. Ne ha tenuto conto anche la sentenza in Cassazione che lo scorso novembre ha spalancato per Verdini le porte del carcere, con una riduzione della pena a sei anni e mezzo proprio perché quattro mesi sono andati in fumo. E proprio la prescrizione, stando voci che corrono al ministero, potrebbe salvare – almeno sulla carta – l’incarico fortemente voluto dalla Gelmini.

Il ministro infatti, sentito dal Fatto, aveva difeso così la scelta. “Parisi collabora con me da tempo, è stato per dieci anni in Parlamento ed è un esperto di procedure parlamentari, dopo molti anni in Commissione Affari Costituzionali ha una competenza importante in tema di riforme”. E arrivati al nodo della condanna con interdizione: “La questione è stata preventivamente segnalata da Parisi, so che è stato condannato in primo grado ma siamo garantisti e il giudizio non è definitivo”.

Al di là del dato tecnico-giuridico, resta il tema dell’opportunità politica di una scelta che si tira dietro un clamoroso paradosso: se confermato, Parisi sarà stipendiato a 10mila al mese dalla stessa Presidenza del Consiglio, la stessa che nel processo sulle indebite provvidenze all’editoria era la parte lesa, tanto da aver ottenuto il congelamento dei beni, il risarcimento di danni e la refusione delle spese legali sostenute. Per i condannati un conto a dir poco salato: 2,5 milioni di euro di provvisionale “immediatamente esecutiva” a favore della Presidenza.

Neppure davanti a questo cortocircuito la Gelmini si scompone: “Al momento c’è una sentenza, ma non è passata in giudicato”, ha tagliato corto. Anche Parisi aveva risposto al Fatto dicendo le stesse cose (“sono un libero cittadino, non pregiudicato”), ma ammettendo di non ricordare se la condanna avesse comportato o meno l’interdizione. Su questo gli uffici giuridici dovranno lavorare di cesello per districarsi tra le norme. Comunque finisca, l’ingombrante tema dell’opportunità resta.

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