“Sono necessari ulteriori studi per meglio comprendere l’eziopatogenesi del Bia-Alcl (Breast Implant Associated-Anaplastic Large Cell Lymphoma)”, è questa la conclusione della Scientific Committee on Health, Environmental and Emerging Risks (Scheer), organo scientifico indipendente della Commissione Europea, che qualche giorno fa ha reso pubblica la sua opinione. Limitati livelli di evidenza scientifica, dunque, a supporto di una ipotetica correlazione tra la protesi mammaria e l’insorgenza di una rara forma di linfoma diagnosticato in pazienti portatori di tali dispositivi.

A dieci anni dal primo caso diagnosticato in Italia, lo Scheer ribadisce la necessità di continuare a raccogliere dati e invita la comunità scientifica a promuovere la ricerca. Negli ultimi anni, accesi dibattiti sul coinvolgimento o meno delle protesi mammarie nell’insorgenza di questa patologia hanno alimentato congressi nazionali ed internazionali; c’è chi ha addirittura messo in discussione i vantaggi e i benefici che questa tipologia di dispositivi ha apportato alla salute delle donne negli ultimi 70 anni.

Un’informazione mediatica, a volte scorretta, ha generato panico nelle pazienti impiantate e orientato il mercato verso l’uso delle protesi a superficie liscia; sì, perché ad essere messe sotto accusa sono state soprattutto le protesi a superficie ruvida (dette “testurizzate”). Ad un tratto sembrava si stesse tornando indietro nel tempo, rinnegando la ricerca e l’innovazione tecnologica degli ultimi 40 anni, sin da quando nel 1987 furono introdotte sul mercato le prime protesi testurizzate per ridurre le complicanze da protesi lisce, e nel 1993 comparvero le prime protesi di forma anatomica (dette “a goccia”) in grado di riprodurre meglio la forma della mammella.

A giovare dell’introduzione sul mercato di queste ultime proprio le pazienti sottoposte a mastectomia, per le quali una protesi anatomica riproduce la forma della mammella persa in maniera certamente più naturale. C’è chi ha anche affermato, invece, che il risultato estetico di una protesi di forma tonda (a superficie liscia) fosse paragonabile a quello ottenuto con una protesi di forma anatomica (disponibile sul mercato solo con una superficie testurizzata), suggerendo che si potesse fare a meno delle protesi a superficie testurizzata e che, quindi, potessero essere rimosse dal mercato.

C’è chi ha poi rinnegato la ricostruzione mammaria protesica a vantaggio di altre tipologie di ricostruzioni più complesse, senza però tenere in considerazione che non tutte le pazienti possono essere sottoposte a tali interventi, e che non tutte le Breast Unit riescono ad offrire alle donne queste complesse procedure; il tutto mentre sui social si è assistito a forme di sciacallaggio pubblicitario che incitavano in maniera inappropriata le donne a sostituire le loro protesi.

Adesso, a un anno di distanza e in linea con il parere espresso dal Consiglio Superiore di Sanità, dal
report dello Scheer emergono solo limitati livelli di evidenza scientifica. Il Bia-Alcl è e resta una patologia rara della quale sono ancora troppi gli aspetti sconosciuti e da chiarire. È corretto che le istituzioni continuino a monitorare i casi clinici e a sensibilizzare gli operatori sanitari, e che il mondo scientifico continui a investigare, raccogliere e studiare i dati, ma che lo si faccia senza inutili allarmismi, poiché curare e tutelare la salute dei pazienti significa anche lasciar loro la possibilità di recuperare quella serenità che la malattia può aver loro portato via.

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