Quest’anno il 1° maggio coincide con la presentazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), il programma di investimenti che l’Italia deve presentare alla Commissione Europea nell’ambito del Next Generation Europe, con lo scopo di rigenerare l’economia dopo la crisi (ancora in corso) indotta dall’epidemia di Covid-19.

Una coincidenza significativa perché ci permette di osservare ancora una volta come le scelte di politica dell’attuale governo e dell’Europa seguano il solito refrain neoliberista: occorre finanziare l’attività delle imprese private e garantire loro profitti soddisfacenti, al fine di incentivare gli investimenti, quindi la crescita e l’occupazione. Ma questa ricetta ha già dimostrato la sua fallacia, a meno che non venga accompagnata da una politica di adeguati aumenti salariali e dalla garanzia di una continuità di reddito diretto e indiretto.

Nel Pnrr di Mario Draghi la parola “concorrenza” compare 42 volte, “competizione” 79, mentre “diseguaglianze” 7 e “diritti” 18. Se consideriamo le occorrenze di “competizione”, “concorrenza” e “impresa” (257), queste risultano più del doppio (378) rispetto a “lavoro” (179), parola che pure sta sulla bocca di tutti. Non si tratta di mera analisi testuale: la scelta delle parole, e la loro ripetizione enfatica, rivelano il senso di un discorso e le sue finalità. Così nel Piano di Draghi le diseguaglianze scolorano nelle pari opportunità, i diritti nell’accessibilità (selettiva) ai servizi mentre la ricerca scientifica, l’istruzione e la formazione acquisiscono importanza se vanno in direzione dell’impresa (e non del benessere dei cittadini).

Ma c’è di più. Il Pnrr è un grande regalo alla profittabilità delle imprese. Con i soldi pubblici europei (da restituire per due terzi) si finanziano iniziative private, in regime di monopolio. L’esempio più eclatante è la rete 5G, appaltata a Tim con i soldi di Cassa Depositi e Prestiti. Ciò che dovrebbe essere un diritto di base (l’accesso libero e gratuito a Internet) si trasforma in un servizio a pagamento. La lista però è lunga. Si va dall’Alta Velocità e dagli investimenti sull’idrogeno targati Eni agli investimenti per la difesa nazionale (targati Leonardo, da cui proviene il ministro Cingolani), passando per i corsi di formazione professionale a uso e consumo delle imprese ma inseriti nella missione “istruzione e ricerca”. E in nome della concorrenza, panacea e illusione dell’ideologia neoliberista a cui il Pnrr dedica parecchie pagine, si chiede la liberalizzazione del trasporto locale e dei servizi sociali.

Il 1° maggio è un giorno di lotta per rivendicare il rispetto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, oggi sempre più negati, come le lotte dei rider e della logistica dimostrano; per il diritto all’autodeterminazione e alla scelta senza subire il ricatto del bisogno; per un reddito di base incondizionato che tenga in considerazione e remuneri la valorizzazione del nostro vivere quotidiano, oggi a uso e consumo di poche piattaforme.

Poco o nulla di ciò è presente nel Pnrr di Draghi, deciso da un comitato di regia di quattro tecnici e oggi osannato dalla stampa mainstream. Si fa solo un tiepido riferimento all’estensione della Cassa Integrazione (ma senza affrontare in modo diretto il nodo della precarietà) e alla necessità di introdurre un salario minimo legale per i non contrattualizzati. Il tutto è demandato a una futura ed improbabile riforma degli ammortizzatori sociali.

Sono invece questi i temi che oggi dovrebbero stare al centro della giornata del 1° maggio: reddito e diritti, autodeterminazione della persona, fine delle discriminazioni, libertà di espressione di sé e dei propri desideri, accesso gratuito a servizi pubblici di qualità, a partire dalla sanità e dall’istruzione – proprio quei servizi pubblici la cui liberalizzazione e privatizzazione, in nome della presunta maggiore efficienza del mercato, ha portato al collasso durante l’epidemia di Covid-19, nel momento di maggior bisogno.

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