Lo scrittore e storico esperto di conflitto afghano ripercorre, parlando a Ilfattoquotidiano.it, gli eventi scaturiti dall'operazione che portò alla morte del leader di al-Qaeda e principale responsabile degli attacchi dell'11 settembre. Eliminato il nemico pubblico numero uno, però, Washington non è riuscita ad avviare quel processo di pacificazione che avrebbe garantito la sicurezza della popolazione locale ed evitato che il Paese si trasformasse in un rifugio sicuro per le organizzazioni terroristiche
“Stanotte posso riferire alla gente d’America e al mondo che gli Stati Uniti hanno portato a termine un’operazione in cui è stato ucciso Osama Bin Laden“. La sera del 1 maggio 2011, le parole di Barack Obama sono entrate con determinazione nella vita di tutti gli americani. Dalla Casa Bianca, il presidente stava annunciando che alle 1 di mattina del 2 maggio, in Pakistan, una forze d’élite dei Navy Seal, il cosiddetto Team Six, aveva fatto irruzione in un complesso di Abbottabad, in Pakistan, e ucciso colui che dieci anni fa aveva inferto il colpo più doloroso al cuore della nazione più potente al mondo. Lo Sceicco del Terrore, colui che aveva ordinato gli attentati dell’11 settembre 2001 non c’era più, il nemico pubblico numero uno era stato definitivamente eliminato. Oggi, dice a Ilfattoquotidiano.it lo scrittore e storico esperto di conflitto afghano, Ahmed Rashid, quell’operazione rimane un successo solo per Washington: “Non lo ammetteranno facilmente, ma con il ritiro delle truppe Nato questa guerra è stata una sconfitta anche per gli americani. E il vero nemico del popolo afghano è ancora lì, più forte di prima, e si chiama Taliban“.
L’operazione di Abbottabad nella quale è stato ucciso Osama bin Laden rappresentò un punto di svolta nella guerra al terrorismo lanciata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Cosa è cambiato da quel giorno nelle strategie americane? E come gli afghani hanno iniziato a guardare al loro futuro?
In quel periodo, l’America era già ostaggio del crescente razzismo, delle rivendicazioni da parte della destra estremista e di azioni violente nei confronti della popolazione afroamericana e asiatica. Questi gruppi volevano e vogliono destabilizzare il sistema politico e prendere il controllo. E questo ha influito anche sulle strategie americane in Afghanistan. Dalla morte di bin Laden, sia americani che afghani hanno iniziato a guardare in prospettiva al ritiro delle truppe straniere dal Paese. Da quel momento, la popolazione locale ha temuto che ogni passo in avanti portasse al ritiro delle truppe americane e sia Trump che Biden hanno spinto in quella direzione. E questa prospettiva ha rappresentato uno choc per gli afghani che hanno dovuto e dovranno affrontare il pericolo rappresentato da questa scelta. Da un punto di vista militare si è assistito soprattutto a una riconquista di territori da parte dei Taliban, raggiunta anche con l’uccisione di altri afghani. È una guerra civile ed è questo che spaventa la popolazione.
Crede che proprio la popolazione afghana sia la più spaventata dal ritiro delle truppe Nato dal Paese?
Sì, credo che in molti siamo veramente spaventati da questo. Tanti giovani che hanno ricevuto una buona educazione stanno fuggendo illegalmente dal Paese e credo che quando il ritiro sarà effettivo assisteremo a un’altra crisi umanitaria, con molte persone in fuga.
Annunciando il ritiro delle truppe, Joe Biden ha dichiarato che “non possiamo aspettare sperando in un altro finale” della guerra. Vede in queste parole l’ammissione della sconfitta?
Credo che gli americani si guarderanno bene dal definirla così, ma nei fatti è una sconfitta militare. Uno dei motivi per cui i Taliban sono così restii ad accettare dei negoziati è che al loro interno esiste un’anima che ritiene gli americani gli sconfitti di questa guerra e quindi si approcciano ai colloqui da vincitori. Questo mette in pericolo il processo di pace.
Torniamo al giorno dell’annuncio dell’uccisione di Osama bin Laden. Ovviamente l’amministrazione Obama l’ha presentata come una grande vittoria nella guerra al terrorismo. Mi interessa però il punto di vista degli afghani. Come l’hanno vissuta? È stato uno choc sapere che colui che, in qualche modo, aveva portato le truppe straniere nel loro Paese non c’era più?
Credo che il vero choc sia stato scoprire che bin Laden si nascondeva in Pakistan. Per il governo afghano e per le forze di sicurezza, sapere che i Taliban erano così importanti in Pakistan rappresentava un grave pericolo. Per la popolazione afghana il colpo da incassare non è stata la morte di bin Laden in sé, ma l’intensificarsi della guerra civile e delle azioni terroristiche che sono seguite nel loro Paese. Per gli americani può essere stato un successo, ma per gli afghani no perché le persone che ogni giorno uccidono la loro gente erano e sono ancora lì. E sono i Taliban. Quindi questo anniversario è importante per gli Usa, ma non per gli afghani che, invece, sperano che i Taliban rinuncino alla guerra.
Magari è stato il Pakistan a dover fornire delle spiegazioni agli Usa e ai Paesi Nato sul fatto che bin Laden fosse nascosto nel loro Paese.
Ovviamente c’erano persone in Pakistan che sapevano che bin Laden si stava nascondendo lì. Il problema è che non ci sono informazioni pubbliche su chi fosse al corrente di questo. Se lo erano i servizi d’intelligence, i militari, partiti estremisti. È questo ciò che potrebbero dirci Pakistan o Stati Uniti, ossia chi sapeva di bin Laden, chi lo nascondeva. Per rimanere nascosto così a lungo, sicuramente doveva avere dei solidi contatti. Ma questa è una storia che imbarazza il Pakistan e gli Stati Uniti ed è il motivo per cui non la conosciamo.
Dopo la morte di bin Laden è cambiato qualcosa nella mentalità dei gruppi estremisti dell’area? Tra i gruppi terroristici questo evento ha cambiato in qualche modo le carte in tavola?
Direi di no perché, in fondo, bin Laden non era una figura importante per i gruppi locali, per i loro scopi. Abbiamo registrato ancora più attacchi da parte dei Taliban afghani, più attacchi da parte dei Taliban pakistani, abbiamo assistito ad azioni di gruppi estremisti dell’Asia Centrale e a offensive sempre più violente di formazioni tipo Lashkar-e Taiba, anche in Kashmir. Tutti questi gruppi sono ancora lì.
Dopo la morte di bin Laden, uno degli obiettivi dei governi stranieri impegnati nel conflitto è stato quello di promuovere un accordo tra i principali attori locali. Mi riferisco ovviamente ai Taliban, al governo di Kabul, ma anche ai numerosi signori della guerra. È una strategia che è fallita?
Finora è fallita, attendiamo di vedere come si svilupperanno anche i colloqui in Turchia (ai quali, per il momento, il gruppo fondato dal Mullah Omar si è rifiutato di partecipare, ndr). Al momento i Taliban non stanno dando alcuna concessione al governo.
In quegli anni, sia con la campagna militare in Afghanistan e, successivamente, con quella in Iraq, gli Stati Uniti avevano introdotto il concetto di “esportazione della democrazia”. Vedendo come sono finiti questi due conflitti, è giusto dire che quello si è rivelato un modello fallimentare?
Sfortunatamente la democrazia ha compiuto diversi passi indietro. Non abbiamo ancora visto niente di positivo nascere da quella strategia. Hanno fallito.
Quali sono, secondo lei, i maggiori rischi per la popolazione afghana e per il governo di Kabul a pochi mesi dal ritiro delle truppe Nato?
Credo ci sia un rischio enorme che i Taliban cerchino una soluzione militare, prendendo il controllo dell’Afghanistan e ottenendo così pieni poteri. Questo sarebbe terribile per la popolazione.