Per chi l’ha visto, andatevelo a rivedere; per chi non sa di cosa parliamo provi a studiarsi il cinema che forse oggi non se ne fa più, sia per mancanza di desiderio, sia per impossibilità a perdersi dentro al mistero di un fascio di luce proiettata su un grande schermo in una sala buia
In the mood for love è invecchiato molto bene. Non ce lo aspettavamo. Soprattutto dopo aver visto, quattro anni dopo, nel 2004, in un’affollata sala Debussy del Festival di Cannes, quel terribile sequel intitolato 2046. Quindi l’idea di riportarlo in sala restaurato in 4k avuta da Tucker Film, proprio in questi giorni di riapertura e ri-celebrazione della sala cinematografica, non è affatto male. Wong Kar-wai del resto si è consumato, un po’ come i protagonisti del suo In the mood for love, in un’improvvisa, fascinosa, intensa fiammata durata una decina d’anni per poi sfiorire. Precisiamo meglio: i vicini di stanza il signor Cho (Tony Leung Chiu-wai) e la signora Su (Maggie Cheung), nel volgere di quattro anni, tra la Hong Kong del ’62 e del ’66, vivono la vibrazione stordente di una storia d’amore sospesa, rimandata, non vissuta.
L’impossibilità di scegliere, di dare volontariamente un senso al proprio destino. Non vorremmo calcare troppo la mano ma Wong alla fine si è disperso proprio così, tra lezioni di regia negli atelier di grandi stilisti milanesi e l’incapacità di scegliere una strada per sé che non fosse sempre la riproduzione di un riflesso di gloria che lentamente si spegne senza mai rinascere realmente ad ogni film (alla Michael Cimino per intenderci). Solo che lì, nell’anno duemila, lanciato dalla brulicante vivacità di Hong Kong Express e Happy togheter, nel progettare un capitolo di un film dedicato al cibo si imbatte non tanto nello svolgimento narrativo di uno script quanto nell’evocazione visiva di un umore, di una sensazione, quella del sentimento che nasce tra Cho e Su, stretti fino a sfiorarsi nei corridoi che congiungono due appartamenti limitrofi dove vivono in affitto in due piccole stanze, abbandonati dai rispettivi coniugi a loro volta amanti lontani ed invisibili.
Ecco, Wong intuisce che la tradizionalità dell’incedere di un testo classico melò tardo autoriale di inizio duemila può sublimare in mera composizione dell’immagine. I gesti e i dettagli dei protagonisti, le sfumature cangianti o contrastanti di abiti e sfondi, i movimenti di macchina (carrellate frontali in particolar modo), la distanza variabile dai soggetti/dettagli inquadrati, i brani musicali classico nostalgici in colonna sonora. Lo stile del regista cinese, all’epoca 42enne, ha un fulgido e automatico moto proprio, una specie di grazia compositiva che attrae e incolla l’occhio al frammento visivo che sembra spesso sfuggire come fosse un brandello di memoria che sfuma. U
no spettatore non se ne accorge consciamente ma In the mood for love ci si perde ad osservare l’angolo di un muro, a selezionare in una personale classifica di tono cromatico gli abiti di Maggie Cheung o le cravatte di Tony Leung. Wong inventa quella che potremo definire una “inquadratura sezione”: caviglia e piede dei protagonisti, dall’ombelico a mezza coscia, perfino l’obiettivo che esce illuminato fino all’orlo da un lampadario acceso per finire a mostrare una stanza vuota. Eppure, la precisione elegante dell’osservazione non suscita mai nello spettatore un desiderio di fusione tra Cho e Su, ma lascia spazio ad un cinema incorporeo, non carnale, etereo, quasi astratto. Insomma per chi l’ha visto, andatevelo a rivedere; per chi non sa di cosa parliamo provi a studiarsi il cinema che forse oggi non se ne fa più, sia per mancanza di desiderio, sia per impossibilità a perdersi dentro al mistero di un fascio di luce proiettata su un grande schermo in una sala buia. Per tutte le info sulle sale che proiettano In the mood for love: sbirciate la pagina Facebook della Tucker film. In questo fine settimana le sale sono ben 27 e oltretutto dalla Tucker annunciano che giugno 2021 sarà il mese di Wong Kar-wai sempre in sala.