L'amministrazione Biden fa i conti con una forte pressione al confine col Messico e arrivi che nel 2021 sono stati quasi il triplo rispetto a quelli dei 12 mesi precedenti. Ma per Medici senza frontiere il rafforzamento della militarizzazione delle frontiere porterà ad un’ulteriore criminalizzazione di migranti e rifugiati, lasciati sempre più esposti alle violenze della criminalità organizzata e alla pandemia di Covid-19. In esclusiva per ilfatto.it la storia di Maria, 33enne, partita dal Guatemala per tentare di entrare negli Usa
La questione migranti è uno dei temi più scottanti per l’amministrazione di Joe Biden, alle prese con una crescente pressione alla frontiera meridionale col Messico. Il tema è da settimane al centro dello scontro tra democratici e repubblicani, mentre chi arriva da America centrale e latina spera di trovare con questo presidente un’accoglienza migliore di quella di Trump. Le cifre parlano di un flusso inarrestabile, con oltre 78mila arrivi a gennaio e più di 100mila a febbraio. Numeri che sono quasi il triplo se paragonati a quelli dei 12 mesi precedenti e che rischiano di consegnare al 2021 il primato di anno col numero più alto di arrivi del nuovo millennio. Secondo Medici senza frontiere, la nuova intesa tra Stati Uniti, Messico, Honduras e Guatemala che rafforza la militarizzazione delle frontiere porterà ad un’ulteriore criminalizzazione di migranti e rifugiati, lasciati sempre più esposti alle violenze della criminalità organizzata e alla pandemia di Covid-19. Le équipe di Msf hanno più volte denunciato i raid di massa e casi di detenzione arbitraria al confine meridionale del Messico, oltreché l’espulsione dei richiedenti asilo dagli Stati Uniti in base al “Titolo 42”, provvedimento che vieta tutti i viaggi non essenziali per limitare la diffusione del contagio. Questa norma, emessa a seguito della pandemia di Covid-19 prevede l’espulsione di massa immediata per pretestuosi motivi di salute pubblica, bloccando di fatto il diritto di richiedere asilo negli Usa. In esclusiva per ilfattoquotidiano.it, riportiamo la testimonianza di Maria, fuggita dal Guatemala insieme alla sua famiglia.
“Siamo dovuti scappare dal Guatemala perché a lavoro mio marito ha dato informazioni riservate e le gang gli hanno chiesto notizie a riguardo. Lo hanno minacciato, arrestato e picchiato. Sono venuti a casa nostra e hanno cercato di portare via mia figlia. Un uomo ha preso mio figlio, dicendogli che suo padre doveva collaborare. Dicevano che avrebbero ucciso i miei figli. Così abbiamo deciso di lasciare il paese per il loro bene. Siamo partiti tutti e quattro e abbiamo attraversato il Messico. Non è stato facile, abbiamo dormito per strada. Abbiamo passato momenti difficili, ma pensavamo che una volta superato tutto questo, sarebbe andata meglio.
Abbiamo raggiunto a piedi il confine meridionale del Messico, dove siamo saliti a bordo di un bus per Città del Messico. Il giorno dopo abbiamo preso altri bus per Monterrey e Reynosa, dove gli agenti hanno fermato mio marito e mio figlio. Io e mia figlia non siamo state fermate, così io ho proseguito il viaggio, mentre mio marito è finito in un rifugio per migranti a Monterrey. Ho proseguito perché cos’altro avrei dovuto fare con mia figlia? Tre giorni dopo abbiamo attraversato il fiume, entrando negli Stati Uniti.
È stato molto difficile salire sui gommoni di notte, al buio. Abbiamo camminato tra le colline e, una volta arrivate al fiume, siamo salite a bordo e siamo scese sull’altra sponda, negli Stati Uniti. Raggiunta la riva, abbiamo camminato lungo un sentiero e siamo state fermate dalle pattuglie. Ci hanno puntato addosso le torce e hanno iniziato a selezionare le persone, separandoci dai bambini, a seconda dell’età. Mia figlia ha quattro anni. Mi hanno fatta salire su un bus e dopo un’ora ci hanno dato un po’ d’acqua e qualche biscotto. I bambini sono stati visitati da un dottore, ci hanno preso le impronte, ci hanno scattato delle foto e portati in una grande tensostruttura, divisa in piccole stanze dotate di materassini. Mi stavano per consegnare un materassino, quando mi hanno detto che dovevo aspettare.
È arrivata una poliziotta con un fascicolo che conteneva una mia foto; mi ha detto che ci avrebbero trasferite in un altro centro in cui avrebbero gestito più velocemente il nostro caso, perché quel centro era sovraffollato. Un altro bus. Ci hanno portate in una specie di piccola stazione della polizia con una cella. Era lì che portavano le donne con i figli. Abbiamo dormito per terra. Ai bambini hanno dato un succo di frutta, ma sono rimasti senza mangiare perché gli hanno portato delle cassette di verdure maleodoranti. Ne ho dato un pezzetto a mia figlia ma ha iniziato a vomitare. Ho smesso subito perché se avesse rimesso di nuovo si sarebbe disidratata. Non era consentito portare più di un cambio. I vestiti che non potevamo portare con noi ci venivano tolti e poi buttati. Hanno portato via anche i vestiti dei bambini, nonostante il freddo.
Ci hanno fatto salire su un bus verso le tre di notte. Eravamo preoccupati perché pensavamo: “Nessuno ha preso in carico il nostro caso, non ci hanno chiesto niente, nessuna dichiarazione, non ci hanno chiesto neanche dove eravamo diretti negli Stati Uniti”. Poi ho capito: dal bus ho visto di nuovo il fiume e un agente con una maglia nera e una bandiera messicana.
Ci siamo avvicinati e l’agente ci ha chiesto: “Cosa ci fate qui? Perché mi mandano gente dall’Honduras?” Io ho risposto che venivo dal Guatemala e lui ha ribattuto: “Non importa, non sei messicana e non capisco perché ti hanno mandata qui”. A quel punto una donna ha iniziato a piangere e lui le ha detto: “Gli Stati Uniti non vi vogliono, se vi rimandano indietro è perché lì non vi vogliono.”
Ci hanno portati al centro di accoglienza. Ho detto loro che non sapevo cosa fare, che non avevo nulla, né soldi, né un telefono. Ho detto che ero entrata negli Stati Uniti dal confine di Reynosa e che mi avevano riportata indietro al confine di Nuevo Laredo. Non potevo comunicare con nessuno. Lì con me c’erano circa 20 donne con i loro bambini. Sono arrivati due bus per potarci al rifugio per migranti, sono salite molte donne, avevamo bambini di diverse età, alcune li tenevano in braccio.
Al rifugio comunale ci hanno aiutati. Ho potuto comunicare con la mia famiglia. Mio marito mi ha detto che stava male, che era andato da un dottore e doveva operarsi. Non abbiamo soldi per pagare l’intervento. È lui che si prende cura di mio figlio e se dovesse succedergli qualcosa, mio figlio rimarrebbe solo nel rifugio.
Ci avevano detto che il viaggio sarebbe durato tre giorni e che il sistema di immigrazione americano ci avrebbe accolti. Ci abbiamo creduto, ma non è stato così. Siamo arrivati pensando di poter costruire un futuro migliore per i nostri figli e di trovare un lavoro. Pensavamo che il presidente degli Stati Uniti avesse detto 100 giorni (riferendosi alla moratoria sulle espulsioni, ndr). Noi invece pensavamo che in questi 100 giorni saremmo riusciti a entrare nel paese, ma non è stato così. Molte famiglie stanno mandando i propri figli da soli, quando ho attraversato il fiume c’erano molti ragazzi che viaggiavano da soli.
Nei centri di accoglienza c’erano WC portatili, lavandini e sapone ma non hanno fatto esami medici alle madri. Nessun dottore ci ha controllati, non ci hanno misurato la febbre, non ci hanno fornito mascherine, non ci hanno detto di mantenere il distanziamento fisico nelle celle sovraffollate. In ogni cella c’erano 50 donne con i propri bambini. Stiamo parlando di più di 100 persone in una stanza, con i materassini a terra, uno di fianco all’altro. Qui in Messico i dottori ci hanno visitato rapidamente, solo per misurare l’altezza e il peso e sapere il nostro gruppo sanguigno. Non hanno valutato il nostro stato di salute o fatto un vero check-up medico.
Mio marito si trova in un rifugio in Guadalupe, Nuevo León. Ora stiamo aspettando di tornare nel nostro paese così potrà essere curato, perché qui non abbiamo accesso a nulla. Siamo illegali, per questo non possiamo ricevere aiuti. Ho paura di tornare in Guatemala. So che quello che abbiamo vissuto si presenterà di nuovo. Torneremo a casa, sperando che in qualche modo la situazione si risolva, almeno per la sicurezza dei miei figli, perché neanche qui mi sento al sicuro.
Mi sembra di aver fallito, perché tutto quello che abbiamo dovuto affrontare è stato difficile. Credevo che sarebbe stata una condizione temporanea e che avrei potuto proteggere i miei figli. Ora so che questo non è possibile. Non posso proteggerli neanche qui e, se gli Stati Uniti non ci danno nemmeno la possibilità di presentare la nostra domanda, molto probabilmente tornerò nel mio paese. E sento che sarà come nuotare contro corrente.
Molte donne sono arrivate con l’idea che sarebbero state ricongiunte con la propria famiglia, dato che i mariti si trovavano negli Stati Uniti. Altri sono venuti per cercare lavoro. Altri, come noi, stanno scappando per sfuggire alla morte, ma neanche questo importa, perché non ci ascoltano, non c’è la possibilità di rappresentare la propria situazione. Anche se hai delle prove, non c’è modo. Niente importa, non c’è modo di arrivare dall’altra parte, dicono che i confini sono chiusi.
Gli agenti ti trattano male. Fai una domanda e ti urlano contro, ti spingono. Per perquisire i minori, li hanno fatti mettere contro il bus con le mani in alto e li hanno spintonati. Ho pensato a mio figlio, non voglio che venga picchiato perché ho visto come li hanno maltrattati per perquisirli. Ci trattano male. Noi migranti non vogliamo fare del male a nessuno, vogliamo solo cambiare la nostra vita. Stiamo scappando e non abbiamo intenzione di fare del male a nessuno, ma credo che nessuno lo capisca davvero”.