Diritti

A Campobello di Mazara un padre ha preferito solidarizzare prima con gli stupratori di sua figlia

di Jakub Stanislaw Golebiewski

Mala tempora currunt, soprattutto per le donne e, se lo scrive un uomo, padre di due figlie adolescenti, c’è da preoccuparsi seriamente. Ci sono segnali inquietanti di un arretramento che ci deve interrogare su quanto le radici della cultura patriarcale e dello stupro gettino ancora germogli avvelenati. Abbiamo la convinzione, a volte, di essere ad un passo dal compimento di una rivoluzione pacifica che sta cancellando pregiudizi, stereotipi, discriminazioni sessiste, ma poi accade qualcosa, rigurgiti di una visione arcaica delle relazioni tra uomini e donne, antiche diffidenze e colpevolizzazioni di quelle che sono le nostre figlie, si perpetuano con il flusso di parole misogine e offensive affidate ai social, con l’oggettivazione del corpo femminile e la legittimazione della violenza sessuale, banalizzata come espressione goliardica delle voglie maschili.

Una sub cultura ben radicata nel nostro Belpaese e in virtù della quale, scusate ma è opportuno usarla questa semplificazione, un qualsiasi padre può porre la propria figlia sul banco degli imputati perché femmina oppure difendere dall’accusa di stupro proprio figlio perché maschio.

I pregiudizi spazzano via umanità, amore ed empatia: si crede ad un figlio accusato e in attesa di un processo per stupro, come nel caso di Ciro Grillo, ma non si crede ad una figlia che denuncia uno stupro o ad una sorella lasciando ferite indelebili raccontate con le parole di Valentina Mira nel suo toccante romanzo autobiografico X dedicato al fratello che non le ha mai creduto ed è rimasto amico di uno stupratore, del suo stupratore:

“…so perfettamente che c’è chi crede che i tabù, le tante X che ci cuciamo sulla bocca quotidianamente, debbano rimanere tali. Che c’è un motivo per cui di certe cose non si parla. Che la gente perbene questo mica lo fa. Che si rischia di spaccare le famiglie, di rovinare i rapporti. Ci si vergogna ed è cosa buona e giusta. Ma la vergogna è cosa diversa dal pudore. E certe famiglie si sono spaccate proprio a causa dei tabù, ci sono persone che si sono spaccate a causa dei tabù”.

La realtà ci mostra che non si ha vergogna di solidarizzare con stupratori ma se ne ha a solidarizzare con le vittime: presunti innocenti i primi fino a sentenza o a prova contraria, presunte bugiarde le seconde e comunque colpevoli.

Dopo il video di Beppe Grillo, un padre che ha difeso il figlio indagato per stupro, abbiamo letto di un altro padre, a Campobello di Mazara, in provincia di Trapani, che in un primo momento ha difeso dei ragazzi accusati di stupro della propria figlia: “Mia figlia era ubriaca – ha detto ai carabinieri – non era in grado di capire che cosa stava accadendo. Quelli sono bravi ragazzi”.

I bravi ragazzi dal volto pulito, secondo il Gip che ne ha disposto l’arresto, lo scorso mese di febbraio hanno attirato la ragazza in una trappola con la scusa di un invito ad una festa per commettere uno stupro di gruppo, si sono rivelati capaci di una certa pericolosità, con personalità criminali che rimanevano nascoste nelle ore di lavoro. Il fatto che la diciottenne fosse ubriaca conferma la responsabilità degli aggressori e non della vittima perché l’articolo 609 bis punisce lo stupro quando è commesso “abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto”.

Leggendo la notizia non ho potuto fare a meno di ricordare un altro padre che in altri tempi, conservatori, profondamente patriarcali e misogini, fu un disertore del patriarcato e scelse, in quelle circostanze, di non tradire la figlia ma di tradire i cosiddetti valori patriarcali quando erano ancora pilastri di una società feroce che subordinava le donne agli uomini per legge, legittimando le violenze commesse da padri padroni nelle famiglie. Correva il 1967 ad Alcamo, piccolo comune del trapanese nella soleggiata Sicilia, quando Franca Viola rifiutò di sposare Filippo Melodia, un piccolo boss di paese che l’aveva sequestrata e stuprata. Bernardo Viola, il papà della ragazza, preferì il disonore, l’ostracismo del paese, gli amici che non lo salutavano più, il rischio di ritorsioni al sacrificio della figlia e le disse “basta che tu sia felice, non mi interessa altro, tu ci metti una mano io ce ne metto cento”.

All’epoca dei fatti, in virtù dell’articolo 544 del codice penale, poi abolito nel 1981 assieme al delitto d’onore, lo stupratore poteva estinguere il reato sposando la vittima. L’onore della famiglia era salvo, l’esistenza della vittima no. Lo chiamavano matrimonio riparatore. Bernardo Viola, ha raccontato la figlia Franca, morì anni dopo, nel giorno esatto della triste ricorrenza del suo rapimento e stupro, alla stessa ora in cui i sequestratori, capeggiati da Melodia, avevano fatto irruzione nella casa per compiere il crimine. Credo che non a caso scomparve quel particolare che gli aveva lasciato nell’anima una cicatrice indelebile che l’amore di padre gli faceva sentire ancora viva e dolorosa.

Non è così per questo padre di Campobello di Mazara, senza amore inaccessibile al proprio dolore e a quello della figlia che è entrato in un commissariato per allearsi con i presunti aguzzini accusati di stupro, cancellando con le proprie parole la testimonianza della figlia: meglio il silenzio, meglio una figlia calunniatrice o visionaria che vittima di stupro. Quest’uomo, che poi si è ricreduto, sembra vivere ai tempi di Bernardo Viola, di Bernardo Viola non ha né l’amore, né il coraggio, né la forza.