L’alimento più consumato in Italia ha un forte impatto sull’ambiente. Che aumenta con i grani trattati chimicamente. Mentre i grani antichi sembrano più ecosostenibili e con maggiori proprietà nutritive
A mangiare la pasta siamo in tanti nel mondo: nell’ultimo decennio, a livello globale i consumi sono passati da 9 a 15 milioni di tonnellate. In testa, ovvio, noi italiani con 23 kg pro capite annui: la mangia ogni giorno una persona su 3. Dopo di noi vengono la Tunisia, il Venezuela e la Grecia. Proprio dal Bel Paese arriva un quarto della pasta consumata globalmente, con un export di 3,4 milioni di tonnellate nel 2018. Siamo anche i primi produttori di grano duro in Europa, con 1,28 milioni di ettari coltivati. Tanti, ma troppo pochi per l’appetito dell’industria pastiera, che ne richiede ben di più; i dati dell’Associazione industriali mugnai d’Italia ci dicono che servono 5,6 milioni annui di grano duro, contro una produzione media di 4 milioni di tonnellate negli ultimi 5 anni. Non resta che importare una parte della materia prima. Con tanti dubbi sulla qualità, soprattutto per la possibile presenza di glifosato e/o micotossine.
Largo alla tradizione – Per questo, due ricerche, entrambe del 2019, hanno messo in rilievo l’importanza dei grani antichi dal punto di vista ambientale. La prima, realizzata in Spagna1, ha confrontato per 3 anni cultivar antiche e moderne ottenute con agricoltura convenzionale o bio. Alla fine si è appurato che l’impronta di CO2 dei primi era inferiore con entrambi i metodi di coltivazione (antichi convenzionali: 144 g; moderni convenzionali: 263 g). Nel bio, però, i “vecchi” hanno dato il meglio di sé con un’impronta negativa di –43 g, nel senso che addirittura hanno assorbito più CO2 di quanta non ne abbiano prodotta. Per altro anche i moderni bio si sono comunque distinti, con soli 29 g di CO2.
La seconda ricerca, firmata dalle università di Roma e Firenze, ha valutato l’impatto su aria, suolo e cambiamento climatico dell’intera filiera (campo, stoccaggio, trasporto) del senatore Cappelli ottenuto con tecniche tradizionali e di varietà moderne con processi industriali. Nonostante la resa inferiore, la necessità di più terreno e acqua, il Cappelli si è imposto per il ridotto uso di concimi e meccanizzazione, un degrado inferiore del suolo e il mantenimento della biodiversità. Insomma, i grani antichi opportunamente selezionati, coltivati con metodi tradizionali (come la rotazione delle colture) e con un occhio ai metodi innovativi possono rappresentare il futuro della pasta, anche sotto il profilo nutrizionale.
Le grandi potenzialità della Sicilia – La pasta ecosostenibile fa bene a tutti. Ai coltivatori, che grazie ai contratti hanno un guadagno sicuro, non soggetto a oscillazioni di mercato, e premi di produzione per la qualità e la sostenibilità; fa bene ai molitori e ai pastai, che hanno il grano adeguato ai propri bisogni. Ed è uno stimolo e una valorizzazione per la produzione italiana, sottolinea Dongo: “Un tempo la Sicilia era il granaio d’Europa e potrebbe tornare a esserlo, la nostra filiera ha grandi potenzialità tuttora inespresse”. Adottando criteri di rotazione delle colture, con i legumi soprattutto, si può oltretutto sviluppare un modello agricolo vantaggioso per la società come per l’ambiente. “In Italia molti operatoti si convertono al metodo biologico, che infatti continua a crescere e prosperare. Altri si orientano verso il ‘residuo zero’ di pesticidi.
L’iniziativa più audace, per ampiezza e numero degli operatori coinvolti, è poi quella di Coop Italia, che ha attivato la progressiva eliminazione di glifosato e altri agrotossici da tutte le filiere dell’ortofrutta a marchio Coop, nell’ambito di un programma di riduzione sistemica della chimica in agricoltura concordato con i propri fornitori” conclude Dongo. Per la pasta bio ed ecosostenibile si spenderà forse un po’ di più, soprattutto se è a base di grani antichi; ma è sana, ha un basso impatto ambientale e non penalizza alcun attore della filiera.
L’occhio va sull’etichetta – Dal 2019, sulle confezioni di pasta secca prodotte in Italia devono comparire queste diciture:
a. paese di coltivazione del grano;
b. paese di molitura.
Nel caso di lavorazione in più paesi si dovrà indicare: “Paesi Ue”, “Paesi NON Ue” o “Paesi Ue e NON Ue”. Se il grano duro è coltivato almeno per metà in una sola nazione (poniamo la nostra), si può scrivere per esempio “Italia e altri Paesi Ue e/o NON Ue”.
Quel gusto raro della pasta originale – I prodotti da grani antichi o tradizionali offrono maggiori nutrienti e migliori proprietà organolettiche. I segreti per realizzare piatti che ne esaltano le qualità. La pasta sostenibile, bio e di grani antichi, sembra dunque offrire molte garanzie, benché spesso questi cereali finiscano (ingiustamente) sotto accusa. D’accordo, non è vero che sono poi così antichi, e sarebbe più corretto chiamarli tradizionali, oppure originari. Alcuni sono solo un po’ vecchiotti: il senatore Cappelli, per esempio, ha poco più di un secolo; ma altri, attraverso una lunga selezione o degli incroci, sono arrivati fino a noi da epoche remote: è il caso per esempio del farro monococco, di cui si sono rinvenuti resti fossili di diverse migliaia di anni fa.
Rispetto alle cultivar moderne, questi vecchi grani si prestano meno alle alte rese, alla meccanizzazione e alla lavorazione, ma secondo gli studi hanno più vantaggi dal punto di vista nutrizionale. Vero è che quella dei grani antichi è una categoria ampia e variegata, che a volte rende difficile fare i confronti secondo le regole della scienza. Perciò molti studi si occupano soprattutto di khorasan o Cappelli, che hanno caratteristiche più stabili; ma sotto la lente dei ricercatori sono finite anche altre cultivar, come il Verna o il farro monococco.
In media risulta che le varietà tradizionali abbiano più antiossidanti e minerali, meno citochine infiammatorie e un minor impatto glicemico (quindi un minor rischio di diabete); certi tipi hanno anche mostrato la capacità di ridurre il colesterolo. Non hanno tutti un alto tenore di proteine, ma alcuni arrivano ad averne ben il 14%. Dal punto di vista industriale sono meno interessanti per la minor forza del glutine, che ne rende la lavorazione un po’ più complessa; in compenso, questa caratteristica favorisce la digeribilità.
In mancanza di un disciplinare sulla produzione o di una certificazione della filiera – dicono poi i detrattori – come possiamo essere certi di acquistare davvero grani tradizionali? Di fatto, al momento bisogna affidarsi a produttori seri, in attesa che esistano filiere controllate e certificate. È questo il caso per esempio del grano khorasan o, più di recente, del Senatore Cappelli, che dal 2017 è controllato dalla Società italiana sementi, che a fine 2019 si è meritata una bella multa dell’Antitrust per aver approfittato troppo di questa sua posizione e per l’aumento ingiustificato del 60% in 3 anni del prezzo delle sementi.
Ma non illudiamoci che scendano i prezzi! Indubbiamente i grani antichi e i loro derivati sono cari, anche per ragioni produttive; ma sono sempre di produzione bio o biodinamica, non vengono mescolati con frumenti di altra origine e vengono moliti solo a pietra (con più vantaggi perché si macina il chicco intero, mescolandone tutte le parti e mantenendo meglio i nutrienti). Nella produzione della pasta, la lavorazione è nel solco della tradizione: l’impasto viene trafilato al bronzo, in modo da risultare più poroso e da accogliere meglio i condimenti, infine essiccato a bassa temperatura. I grani antichi hanno sapori e profumi dovuti a molecole aromatiche assenti nelle cultivar moderne. Insomma, non sono un prodotto industriale e vale la pena spendere qualcosa di più, rinunciando in compenso alle megaporzioni di pasta o pane, che non sono propriamente alleate della salute.
Preparare e cuocere la pasta “antica” – La lavorazione dei grani originari richiede qualche accorgimento, come spiega Giuseppe Capano, chef e consulente alimentare (www.chefgiuseppecapano.it). “Essendo farine ricche di fibre ed elementi nobili più grezzi bisogna soprattutto fare attenzione al livello di idratazione richiesto da ognuna; in genere la percentuale di acqua è più alta che per le farine tradizionali”. Più che affidarsi alle dosi delle ricette, raccomanda lo chef, bisogna “sentire” l’impasto con le mani “e determinare se è abbastanza morbido o necessita di maggiore idratazione, il che comporta un maggiore tempo di lavorazione”. L’altro suo consiglio è di usare poco sale. “Il vantaggio di queste farine è anche organolettico, con aromi e sapori intensi, un aspetto estremamente positivo rispetto ai quantitativi di sale assimilati giornalmente, sempre in eccesso”.
Ma se la pasta fresca fatta in casa ha tempi di cottura brevi, come regolarci con quella secca del negozio? Come per qualsiasi pasta di qualità, spiega Capano: “Pentole sufficientemente grandi, abbondanza di liquido (serve per facilitare la cottura di una pasta ricca di fibre), mescolamento attento in base al formato scelto, calore medio-alto”. Poco sale, visto che come detto è già una pasta sapida. Lo chef consiglia, se proprio serve, di aggiungerlo all’ultimo momento (i sughi sono di solito già saporiti), così da “lasciare percepire meglio la qualità della pasta usata”. E l’olio in cottura? Inutile, per Capano, che raccomanda di usarlo “a crudo e di qualità: sa esaltare ancor di più il profilo organolettico della pasta”.
Alcune farine consigliate
Farro piccolo o monococco. Detto anche enkir, ha un seme piccolo e tenero molto profumato e saporito. Nonostante non abbia un elevato tenore di glutine si presta bene a preparare gli impasti sia per la panificazione sia per la pastificazione.
Russello. Antica cultivar siciliana di colore chiaro e sfumature rossastre, come suggerisce il nome. È facile da lavorare, non richiede molta acqua e dà una pasta compatta.
Saragolla. Storicamente diffuso in Abruzzo e zone circostanti, il Saragolla si distingue per il colore ambrato. Ha un basso contenuto di glutine ma si presta bene a preparare la pasta, caratterizzata da un bel colore giallo e da una buona tenuta in cottura. Attenzione a non confonderlo con la varietà nata nel 2004, che ha nome uguale ma origine diversa.
Senatore Cappelli. Nato in Puglia, è coltivato un po’ in tutto il Meridione. Come il precedente vanta un buon tenore proteico. Dotato di un gusto aromatico e persistente, si presta a produrre tanto la pasta quanto il pane.
Timilia o Tumminìa. Originario della Sicilia, dà una farina di colore grigiastro, usata per la preparazione del tipico pane nero di Castelvetrano. Profumata, ha un sapore deciso e aromatico.
Il nostro eco-ricettario (per 4 persone)
Pasta strappata
300 g di farina di grani antichi
sale
Mettete la farina in una ciotola, salatela leggermente e versate gradualmente circa 150 ml di acqua tiepida. Rimestate prima con un cucchiaio e poi cominciate a lavorare il composto con le mani. Rovesciatelo su una spianatoia infarinata e impastatelo finché non è morbido e omogeneo. Raccoglietelo a palla e fatelo riposare per 30 minuti. Stendetelo non troppo sottile con il mattarello. Piegate la sfoglia in 4 e strappate dei pezzi irregolari, di dimensioni simili. Fate asciugare un po’ la pasta, ben stesa su un piano infarinato, e cuocetela come di consueto.
Minestra di pasta e ceci
200 g di ceci
200 g di pasta strappata
2 cucchiai di conserva di pomodoro
1 cipolla
1 costa di sedano
1 carota
1 cucchiaino di origano
3 cucchiai di olio evo
sale, peperoncino
Lessate in pentola a pressione i ceci già ammollati. Tritate il sedano, la cipolla e la carota; fateli ammorbidire in una pentola con un cucchiaio di olio e poca acqua. Unite la conserva stemperata in acqua calda e l’origano; cuocete per 10 minuti. Frullate una parte dei ceci e versateli con quelli interi e l’acqua di cottura nella pentola con il condimento. Portate a bollore, unite la pasta strappata e cuocetela al dente. Salate, condite con olio e peperoncino, e servite.
Pasta di grani antichi ai cavoli e mandorle: la ricetta dello chef
“In questa stagione è molto facile abbinare queste paste con la famiglia dei cavoli: per esempio dei broccoletti o del cavolfiore bianco o romanesco in cimette”, suggerisce lo chef Capano. Ecco come preparare il sugo secondo le sue istruzioni.
350 g di pasta corta
600 g di cavolfiore
1 spicchio di aglio
1 rametto di rosmarino
1 rametto di salvia
8 olive nere snocciolate
8 mandorle a scaglie
1 cucchiaino di scorza di limone grattugiata
3 cucchiai di olio evo
sale, peperoncino
Pulite il cavolfiore e lessatelo al dente in acqua bollente leggermente salata (compresi torsolo e foglie tagliuzzati). Prelevatelo con una schiumarola e ripassatelo in padella con metà dell’olio, un trito di aglio, olive, rosmarino e salvia, un po’ di peperoncino.
Lessate la pasta nell’acqua di cottura del cavolo, scolatela al dente e saltatela brevemente con il condimento. Salate poco (ci sono le olive); completate con l’olio rimasto, il limone e le mandorle precedentemente tostate appena.
La cottura amica dell’ambiente: acqua ed energia quanto basta
L’acqua. Se la pasta non è di grani antichi, usate 1 l di acqua per 100 g di pasta lunga, 700 ml per i formati corti.
Coprire la pentola. L’acqua bolle prima e si riduce il consumo di gas.
Sale. Aggiungerlo a freddo rallenta il raggiungimento del bollore; in ogni caso salare non è obbligatorio.
Spegnere il fornello. Dopo aver buttato la pasta, rimestare e spegnere il gas. Sarà il calore stesso dell’acqua a favorire la cottura, che avverrà nel tempo indicato sulla confezione per la pasta di grani moderni; per l’altra ci può volere un po’ di più, bisogna regolarsi.
Non buttare l’acqua di cottura. Riutilizzatela per una minestra o per l’impasto del pane, o ancora per innaffiare le piante o lavare piatti e stoviglie: grazie al suo forte potere sgrassante aiuta a risparmiare acqua e detersivi.
Articolo di Giuliana Lomazzi
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