C’è un’inquietudine che pervade le canzoni del nuovo disco di Don Antonio intitolato “La Bella Stagione”, un sentimento che trova alla fine una strada per sopravvivere alla nuova routine che si è imposta con la pandemia. “Anche se curiosamente il disco è stato lavorato e completato prima della pandemia – spiega Don Antonio, un americano immaginario, alter ego di Antonio Gramentieri, musicista italianissimo titolare del progetto Sacri Cuori e che ha suonato sul palco e in studio con Alejandro Escovedo, Dan Stuart, Hugo Race e molti altri –, le canzoni hanno un mood che è facilmente specchiabile con la realtà che abbiamo vissuto.”
Testi che sono pennellate poetiche, accompagnati da musiche raffinate, dalle canzoni scaturisce un bisogno di solitudine, in un momento come quello del distanziamento sociale, che ha avuto un significato diverso per ognuno.
“La cosa che mi ha dato più fastidio non è l’isolamento che, in un momento in cui tutto è social, dove tutto è reso come se si fosse su di un palcoscenico, è stato anche un fattore positivo per chi ha avuto il lusso di viversi il lockdown senza pensar troppo alle contingenze sanitarie ed economiche. Ma il Covid ha acuito le differenze sociali, ha riaperto divaricazioni tra classi sociali che non si avvertivano da decenni, ha fatto in modo che si decidesse in modo arbitrario quali fossero i mestieri e le occupazioni degni di continuare e quali le classi sociali da mandare al macello. Ha utilizzato strumenti che erano sostenibili per chi già aveva una vita sostenibile, e assolutamente insostenibili dal punto di vista sociale, culturale ed economico per chi non aveva queste possibilità. Per cui, in realtà, ha tirato fuori il peggio delle persone e della società, e anche egoismo sociale, che non è quello di chi non indossa la mascherina, o di chi fa il lockdown col culo degli altri. C’è gente che da questo ne è uscita travolta molto più dalle misure di contenimento che dal picco epidemico.”
Composto da dieci brani, anticipato dal bel singolo Batticuore, il titolo originale dell’album sarebbe dovuto essere “La distanza”, “ma dal momento in cui si è iniziato a parlare di distanze sociali – spiega il cantautore – per evitare di speculare sulle parole del giorno e sugli hashtag legati alla pandemia, ho deciso di cambiarlo in corsa. Ed essendo uscito a cavallo della primavera e dell’arrivo dei vaccini e delle riaperture, ho pensato che ‘La bella stagione’ fosse il titolo ideale. La bella stagione in realtà è il presente, semplicemente perché non esiste un’altra: c’è un mondo da creare oggi, quello di ieri è già passato e quello di domani è in costruzione. Quindi al netto della nostalgia, delle gioie passate e delle perdite è il tentativo di rimettersi a fuoco sul qui e ora. Perché la bella stagione è oggi, tutte le altre vivono in una dimensione che non è reale”.
È un disco intimo, di ritorno a casa, in cui si sentono una sincerità e una necessità di fondo. “La bella stagione” è il primo album di canzoni in italiano come “Don Antonio”, in cui l’artista racconta di aver cercato di usare “un registro che fosse più evocativo e quindi poetico più che narrativo, stando ben attento che la musica non sopraffacesse sulle parole. Volevo circondarmi di persone familiari in modo che le canzoni avessero le caratteristiche di intimità e familiarità. E credo di esser riuscito nel mio intento di far risuonare le cose intangibili. Ho raccontato una storia, che è sempre la mia, con due materiali diversi. La scrittura e la musica sono stati gli unici mestieri della mia vita, ogni ricordo e ogni storia ha deciso autonomamente se diventare canzone, e in quel caso è finita nel disco, o un racconto. E in quel caso la si trova nel libro”.
Già, perché l’album è accompagnato dall’uscita di un libro di racconti brevi (Gagarin Edizioni) che, come le canzoni, prescindono dall’attualità e che riflettono sul passato, sulle esperienze, sulle perdite, su quanto parti di noi diventino passato. Una terra straniera rispetto alla quale non abbiamo alcun passaporto.