Il quotidiano The Guardian pubblica il bilancio della divisione Europa del colosso dell'e-commerce. Il gruppo riporta una perdita di oltre un miliardo di euro e pertanto matura un credito di imposta su eventuali profitti futuri. Eppure i ricavi sono saliti del 30%. L'azienda: "Paghiamo tutte le tasse che dobbiamo pagare in ogni paese"
Ricavi: 44 miliardi di euro, 12 miliardi in più dell’anno prima. Tasse pagate: zero euro. Amazon, come gli altri colossi del web, non è nuova alle acrobazie fiscali. Ma l’ultimo bilancio della divisione europea pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian sfida le leggi della fisica più di quelle del fisco. La divisione europea ha sede fiscale in Lussemburgo e gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia. Naturalmente le imposte si pagano sui profitti (eventuali) e non sui ricavi. Tuttavia, nonostante un incremento degli incassi di oltre il 30%, favorito anche dal boom delle vendite on line dovuto alle chiusure degli esercizi commerciali causate dai lockdown, il gruppo è riuscito a registrare in Europa perdite per 1,2 miliardi di euro. Di conseguenza, non solo non pagherà un centesimo di tasse, ma ha maturato un credito di imposta di 56 milioni di euro che portano a 2,7 miliardi il “tesoretto” fiscale che il gruppo potrà sfruttare qualora dovesse mai riuscire a guadagnare qualcosa in Europa.
Un portavoce del gruppo di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, afferma che “Amazon paga tutte le tasse richieste in ogni paese in cui opera. Le tasse sulle imprese si basano sui profitti e non sui ricavi e i nostri profitti sono rimasti bassi a causa dei massicci investimenti e del fatto che il nostro è un settore altamente competitivo e con margini ridotti”. Sta di fatto che Amazon non rende mai noti i bilanci con ricavi ed utili relativi ai singoli paesi in cui opera. Amazon si è stabilita in Lussemburgo nel 2003, paese specializzato nel concordare trattamenti fiscali “su misura” con le multinazionali che lo scelgono. Pratica in cui era particolarmente ferrato l’ex premier del Granducato ed ex presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Ma visto che i profitti non esistono il problema delle aliquote neppure si pone (ma si pone quello del come calcolare la base imponibile). Ci si può legittimamente chiedere come sia possibile che una delle più floride aziende del mondo, che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’intera Italia, non riesca a guadagnare in Europa neppure un centesimo.
Gli investimenti, i bassi margini, la concorrenza…spiega l’azienda. Ma spesso il punto non è che qui non si fanno profitti, il punto è che questi profitti vengono immediatamente spostati altrove, al sicuro dalle pretese delle agenzie fiscali. Finiscono in quei paradisi fiscali dove il prelievo è nullo o irrisorio. Un’operazione piuttosto semplice per multinazionali che hanno sedi in tutto il mondo. Attraverso compravendite fittizie infragruppo tra filiali dei diversi paesi i guadagni vengono spostati da dove si realizzano a dove più conviene. Le barriere alzate dal Lussemburgo contro queste pratiche non sono certo granitiche. Il Guardian ricorda come, secondo calcoli di Fair Tax Foundation, grazie a queste tecniche Amazon, Facebook, Google, Netflix, Apple e Microsoft siano riuscite a non pagare con questi metodi tasse per 100 miliardi di dollari. Amazon emerge come il gruppo più spregiudicato del sestetto. Avrebbe versato tasse per 3,4 miliardi di dollari a fronte di ricavi per 961 miliardi e utili per 27 miliardi. In sostanza un prelievo effettivo del 12,7%.
La notizia del quotidiano britannico è stata commentata anche dalla commissione Ue che in una nota ha affermato “Abbiamo visto quanto apparso sulla stampa, non entriamo nei dettagli, in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e contro le frodi fiscali, nelle prossime settimane pubblicheremo una comunicazione e sul piano globale siamo impegnati con i partner internazionali nella discussione in corso’ sull’equa tassazione delle imprese. Si tratta del negoziato per definire un’imposta minima globale per evitare la concorrenza fiscale al ribasso. Quanto agli aspetti di concorrenza, del caso Amazon/Lussemburgo il dossier resta in mano alla Corte di Giustizia Ue: il gruppo Usa e il Graducato hanno contestato la decisione comunitaria che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro, un trattamento considerato illegale ‘ha permesso ad Amazon di versare molte meno imposte di altre imprese”. Non semplicissimo, peraltro, per Bruxelles commentare pratiche fiscali che sfruttano normative di uno dei suoi stati membri.
Qualcosa potrebbe cambiare se davvero entrerà in vigore l’aliquota minima del 21% sui profitti realizzati all’estero dalle multinazionali a prescindere dal paese di residenza. Se implementata la tassa azzererebbe molti dei benefici del ricorso si paradisi fiscali. Uno stato come Bermuda potrebbe continuare ad applicare un’aliquota dell’1% ai profitti trasferiti nella sua giurisdizione ma a quel punto il paese in cui la multinazionale ha sede potrebbe prelevare il rimanente 20%. Un’ipotesi di cui in sede Ocse si discute da tempo ma che ora ha ricevuto l’avallo degli Stati Uniti e a cui si sono già accodati diversi paesi a cominciare da Germania e Francia.