“Non siamo qui da tre mesi perché ci piace dormire al freddo in una tenda in mezzo alla strada”. Reagisce con il sarcasmo Shah Syed, ex-operaio per tre anni dipendente della Texprint di Prato, all’accusa dell’azienda tessile di essersi inventati le condizioni di sfruttamento. “È vero, alcuni contratti erano regolari, ma abbiamo le prove di quello che diciamo, lavoravamo 12 ore al giorno tutti i giorni della settimana, una vita impossibile, senza alcuna garanzia in caso di malattie o infortuni”. Hamid Nasir racconta di aver perso una falangetta dell’indice in fabbrica: “Arrivavo alla sera stanco, era inevitabile essere meno preciso, così questo dito mi è finito in un macchinario – nessun rimborso per lui, messo in cassa integrazione per aver dichiarato al pronto soccorso che l’infortunio era avvenuto sul lavoro – il capo non aveva voluto chiamare l’ambulanza, mi ha portato lui per evitare che io dicessi che mi fossi infortunato al lavoro”.
Due testimonianze tra le tante degli operai, circa una ventina, che dal 18 gennaio scioperano davanti alla stamperia tessile Texprint di Prato, in presidio giorno e notte per chiedere il rispetto del contratto nazionale, che prevede otto ore di lavoro per cinque giorni alla settimana. A oggi, tutto quello che hanno ottenuto è stato il licenziamento, per 13 di loro, e lettere di sospensione per gli altri. Dal canto suo, l’azienda si difende lasciando che a parlare siano alcuni dei dipendenti rimasti a lavorare, che decidono di intervenire davanti allo stabilimento e accanto a responsabile tecnico Zhang Sang Yu (arrestato in luglio insieme a membri del clan Greco e poi assolto dal tribunale di Milano). “A causa della campagna della protesta dei pachistani ora rischiamo di chiudere – spiega una donna autorizzata a parlare a nome degli impiegati amministrativi che preferisce non dire il suo nome – perché è difficile fare uscire la merce e alcuni clienti si sono tirati indietro”. Non solo ripercussioni dello sciopero, marchi come Dixie hanno scelto di ritirare la commessa in solidarietà ai lavoratori che denunciano condizioni di sfruttamento, l’interdittiva antimafia emanata in queste settimane impediscono di lavorare con enti pubblici, un problema per una ditta che, ancora lo scorso anno, ha incassato 354mila euro per la produzione di mascherine anticovid.
“L’interdittiva antimafia è infondata e l’abbiamo impugnata” si difendono dall’azienda, che respinge in blocco le accuse. Sulle accuse di sfruttamento era stata aperta anche un’inchiesta, che ora la procura ha chiesto di archiviare, perché mancano elementi per sostenere l’ipotesi di reato. Intanto i lavoratori restano in presidio davanti ai cancelli, filmati giorno e notte dalle telecamere che Texprint ha fatto installare all’esterno dopo che l’ispettorato del lavoro, stando a quanto dichiarato dal Si.Cobas che segue la vertenza fin dall’inizio, ha fatto togliere quelle che riprendevano gli operai al lavoro. La Regione Toscana si era impegnata ad aprire un tavolo di crisi, ma tutto è finito con un nulla di fatto. E a oggi poco è stato fatto, su una vertenza che rischia di creare un precedente nell’ambito del “made in Italy” del tessile pratese. Ora, mentre sembra che le istituzioni non riescano a trovare il modo di mediare il conflitto tra lavoratori (che chiedono l’assunzione nel rispetto del contratto nazionale) e l’azienda (che si ritiene minacciata e danneggiata dai lavoratori in sciopero), fa un certo effetto sentire riecheggiare lo stesso slogan con il quale veniva lanciata, oltre 130 anni fa, la prima giornata mondiale di mobilitazione dei lavoratori: “Otto ore di lavoro per cinque giorni alla settimana”