di Paolo Di Falco
Un viso sorridente, una ragazza di 22 anni morta mentre lavorava in una fabbrica tessile a Montemurlo, in provincia di Prato, e un bambino di 5 anni che ha perso la madre. Ecco in breve la storia di Luana D’Orazio di cui tanto si è detto durante questi ultimi giorni, spesso in maniera abbastanza irrispettosa andando a violare il dolore di una famiglia distrutta per la perdita della propria figlia.
Il triste episodio ha però accesso le luci sui continui incidenti mortali durante il lavoro che sono in continuo aumento dal 2015 e, sempre da quell’anno, non sono mai scesi sotto i mille. Nei primi tre mesi sono già 185 le persone che hanno perso la loro vita mentre facevano la cosa più naturale del mondo, lavorare. Non solo Luana ma anche Christian Martinelli, un operaio di 49 anni morto due giorni fa in una fabbrica di Busto Arsizio, l’operaio edile Mattia Battistetti di 23 anni morto schiacciato da un carico staccato da una gru in un cantiere in provincia di Treviso, o la 23enne Sabri Jaballah schiacciata da una pressa a Montale.
Dietro le fredde statistiche si nascondono tanti volti, tante storie di persone che continuano a perdere la vita e che troppo spesso vengono ridotte solamente a numeri, parole per discorsi di sindacalisti qualsiasi a cui non seguono fatti, titoli da prime pagine o trafiletti con due parole di circostanza nelle ultime pagine a seconda dell’aspetto della vittima. Queste morti oggi sono inaccettabili specialmente in una società evoluta come la nostra, dove alla parola lavoro dovrebbe essere associata la parola sicurezza, ad una determinata mansione dovrebbe corrispondere un’adeguata formazione, dove troppo spesso i controlli vengono fatti da manuale solamente nel bel mezzo della scena della tragedia e non durante la normale attività lavorativa.
Ancora più inaccettabile è la spettacolarizzazione del dolore e della notizia stessa legata ad immagini che si trovano sui social e che vergognosamente vengono utilizzate non per raccontare una tragedia ma, semplicemente, per ottenere qualche click in più. Purtroppo è accaduto anche per il triste caso di Luana: sono tante le foto prese dal suo account Instagram e diffuse non per parlare di tutti questi temi, ma semplicemente di una bella ragazza, morta sul posto di lavoro. Diffuse nei vari tg, nelle nostre bacheche social solo per spettacolarizzare quanto accaduto, per continuare a speculare sul dolore della povera famiglia di questa ragazza come se la tragedia in sé non bastasse.
E’ abbastanza triste da ammettere, ma si è riusciti a trasformare anche una storia del genere in un semplice titolo stampato in prima pagina, si è riusciti a sfruttare i sorrisi delle sue foto in immagini di copertina perfette per far crescere i like senza accorgerci che, nel frattempo, il problema continua a crescere e di fronte a tutto questo, così come per ogni altra cosa, continuano ad aumentare di ora in ora le prese di posizione a mezzo social dei vari politici o sindacalisti; ma nessuna azione fatta nella pratica per una maggiore tutela.
All’inizio di questo post oltre che di Laura vi ho parlato anche di Christian, Mattia, Sabri ma, ditemi, quanti articoli dedicati a loro avete visto? Quante prime pagine? Quanta indignazione e quante prese di posizione? Non c’erano loro immagini sui social? Ecco, questo è l’esempio lampante di come troppe volte anche il giornalismo smarrisce la sua bussola, di come a volte si preferisce puntare l’attenzione non sulla problematica già vista e rivista ma su una storia e non per andare a scoprire cosa c’è dietro, per informare, per smuovere l’opinione pubblica e qualche azione legislativa in merito, ma solamente per farci un titolo, per declinare una storia in tutte le sue sfaccettature finché continuerà ad essere cliccata per poi abbandonarla due settimane dopo per qualcos’altro di virale.
In mezzo a tutto questo però il problema resta: si continua a morire sul lavoro anche nel silenzio dei media e dei sindacati, si continua a morire per portare un pezzo di pane sulla tavola anche quando non importa quasi a nessuno, si continua a morire sul lavoro anche quando i clic sono pochi e nessuno prende posizione.