Il 75% delle donne lavoratrici si fa totale carico delle attività di cura non retribuite. Si occupano dell’assistenza di genitori anziani, parenti, figli. Ricoprono il ruolo di caregiver. Svolgono cioè tutte quelle attività a supporto della famiglia, senza ricevere denaro. Se in smart-working, non riescono a separare il tempo dedicato a questa attività da quello lavorativo: si sommano in una complessa sovrapposizione sperimentata dal 60% delle donne intervistate. Sono alcuni dei risultati emersi dal report “Smartworking e opportunità e rischi per il lavoro femminile”, realizzato da Azzurra Rinaldi e Nicoletta Maria Capodici, School of Gender Economics – Università Unitelma Sapienza e tra le fondatrici de il Giusto Mezzo. Un questionario rivolto a un campione di 800 donne rappresentativo delle lavoratrici comprese fra i 18 e i 65 anni.
“Questo ci spiega perché, ad esempio, su 101mila persone che lasciano o perdono il proprio impiego, 99mila sono donne e 2mila sono uomini, come è successo a dicembre secondo Istat. Le prime sono sovraccariche”, spiega Rinaldi. Aumentano le ore di lavoro, se svolto da casa, e aumenta il tempo della cura, con la didattica a distanza. La giornata però non si allunga. Quindi, quando si riesce a conservare la professione, cosa resta fuori? Le intervistate dichiarano di essere costrette a rinunciare per il 72% alla cura di sé, per il 76% ai propri hobby ed allo sport, per l’80% a momenti di riposo. “Sono racconti di scene quotidiane: si stacca dal pc e si comincia a cucinare. Devono autoimporsi di prendersi momenti per sé, che nella routine non ci sarebbero”.
I dati seguono la linea di quelli individuati dall’Organizzazione Internazionale del lavoro (International Labour Organization, Ilo), secondo cui le donne svolgono una media di 5 ore di assistenza e cura al giorno e gli uomini un’ora e 48 minuti. Qualcosa però si muove se si controllano le tendenze annuali: il contributo degli uomini in questo ambito è aumentato negli ultimi 20 anni a una velocità annuale di 1,2 minuti al giorno. Le donne hanno invece ridotto lo stesso tempo di 2,1 minuti al giorno ogni anno. Secondo i calcoli di Ilo, a questo ritmo la parità fra i generi su questo tema potrà realizzarsi nel 2066.
Intanto, con la pandemia cambia il modello di welfare familiare. Prima del Covid le coppie si affidavano ai nonni per ottenere supporto nella cura dei figli, ora non è più così. Il 75% delle donne coinvolte nel questionario di Rinaldi e Capodici svolge assistenza in autonomia, il 25% ha invece risposto di ricevere aiuto. La gran maggioranza dal partner: 70%. Segue il ricorso a baby sitter o a personale retribuito (16%) e all’ultimo posto i genitori (14%).
Se le donne non caregiver possono ottenere dei vantaggi dalla condizione smart, le caregiver risultano penalizzate. Quando raggiungeremo una nuova normalità, prosegue Rinaldi, “Bisognerà fare attenzione a non rendere lo smart-working una soluzione per categorie, come fosse un nuovo part time. Misura che, ricordiamo, nella maggior parte dei casi è involontaria”. Concedere il lavoro da casa in prevalenza alle donne significherebbe perciò prolungare il problema e non oltrepassarlo: “Continuerebbero a focalizzarsi su attività di cura non retribuite e perderebbero invece occasioni di crescita professionale, perché assorbite su altri fronti”.
Una possibile soluzione sta sempre nell’assistenza statale e nel sollevare le donne dal duplice carico di lavoro: “Prima di tutto il congedo parentale di cinque mesi esteso anche al padre, al momento ridotto a dieci giorni. E poi converrebbe investire nelle realtà che si occupano di attività di cura retribuita. Perché spesso sono professioni svolte da donne – personale di asili nido, per esempio – e si aumenterebbe il tasso di occupazione dove è basso”. Al contempo una struttura assistenziale più flessibile renderebbe le caregiver più libere. “E anche loro potrebbero produrre reddito. Forse con il Piano nazionale di ripresa e resilienza si poteva pensare a qualcosa in più per quanto concerne la parte di inclusione sociale. Non solo in una prospettiva di accoglimento delle istanze delle donne, ma anche e soprattutto di potenziamento economico. Sostenere il welfare significa sostenere i nostri figli”. Oltre alla transizione ecologica e digitale, chiude Rinaldi, ne sarebbe utile anche una culturale per quanto concerne la gestione della genitorialità e dell’attività di cura. Che converrebbe anche alle casse dello Stato: stando alle rilevazioni di Oxfam per il 2019, il lavoro non retribuito svolto (in maggioranza) dalle donne nel mondo è pari ogni anno a 10.8 trilioni di dollari. Tre volte quello del settore tecnologico.