La crisi del settore delle costruzioni ha portato a una diminuzione delle cave autorizzate, oggi 4.160, ma in Italia sono in aumento (siamo a più di 14mila) quelle dismesse o abbandonate. E solo una minima parte vedrà un ripristino ambientale. Nel nostro Paese, inoltre, i canoni per le cave restano irrisori, la normativa è inadeguata (la direttiva europea viene spesso raggirata), con una pianificazione incompleta e una gestione delle attività estrattive senza controlli pubblici trasparenti. Nel Rapporto Cave 2021 di Legambiente, i numeri e le storie che raccontano i punti critici, ma anche le prospettive del settore. E si tratta di un tema cruciale, “visto il rilancio dei cantieri previsto con il Recovery plan – sottolinea Legambiente – in particolare di alta velocità ferroviaria, ma anche in edilizia con il superbonus di cui si sta discutendo la proroga”. Secondo l’associazione “la chiave del recupero e riciclo può contribuire non solo a ridurre progressivamente le cave, ma anche a rilanciare il settore delle costruzioni”, mentre “le attività estrattive possono essere gestite correttamente, ponendo attenzione a ridurre l’impatto sul paesaggio”. Larga parte dei rifiuti da demolizione e ricostruzione oggi, invece, finisce in discarica e siamo ben lontani dall’obiettivo del 70% di recupero fissato al 2020 dall’Ue. “Eppure – spiega Legambiente – gli studi evidenziano come la filiera del riciclo in edilizia garantisca il 30% di occupati in più a parità di produzione”.

I DATI SULLE CAVE – Le cave di inerti e quelle di calcare e gesso rappresentano oltre il 64% di quelle autorizzate, percentuale che supera l’81% se si analizzano le quantità estratte. Più basse le quantità estratte di materiali di pregio, come i marmi, ma la crisi si è fatta sentire meno per le esportazioni verso Stati Uniti e Medio Oriente. Vengono estratti annualmente 29,2 i milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia per le costruzioni, 26,8 milioni di metri cubi di calcare e oltre 6,2 milioni di metri cubi di pietre ornamentali. Sulle 14.141 cave dismesse, spiccano i dati della Lombardia, con oltre 3mila siti chiusi, ma anche della Puglia (2.522) e della Toscana (2.400). Mentre Sicilia, Veneto, Puglia, Lombardia, Piemonte e Sardegna sono le Regioni che presentano un maggior numero di cave autorizzate, almeno 300 in ognuna. I Comuni con almeno una cava autorizzata sono 1.667, il 21,1% del totale. Di questi sono 1.192 quelli con una o due cave autorizzate, mentre 54 ne contano oltre dieci. Le storie raccolte nel rapporto dimostrano quante sono le vertenze nei territori, da Carrara a Guidonia, da Caserta a Treviso ed anche l’esistenza di molte attività nuove o vecchie che mettono a rischio il paesaggio italiano. “Non ci sono più scuse – dichiara Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente -, abbiamo oggi la possibilità di passare da un modello lineare, di grande impatto, a uno circolare dove l’obiettivo è puntare su recupero, riciclo, riqualificazione urbana e territoriale”.

LA NORMATIVA – Il settore è governato a livello nazionale da un regio decreto del 1927. Da allora non c’è stato un intervento normativo che determinasse criteri unici per tutto il Paese e mancano anche un monitoraggio nazionale e indirizzi comuni per la gestione e il recupero. Nel 1977 le funzioni amministrative relative alle attività di cava sono state trasferite alle Regioni e gradualmente sono state approvate normative regionali. “Ma in molte Regioni si verificano situazioni di grave arretratezza e i limiti all’attività estrattiva sono fissati in maniera non uniforme” si spiega nel rapporto. Sono assenti piani specifici di programmazione in Abruzzo, Molise, Sardegna, Calabria, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, tutte Regioni che non hanno un Piano Cave vigente, a cui si aggiunge la Provincia Autonoma di Bolzano. Senza piani si lascia tutto il potere decisionale in mano a chi concede l’autorizzazione. Sull’impatto ambientale delle cave è intervenuta l’Ue e con la direttiva 85/337 si è stabilito che l’apertura di nuove cave debba essere condizionata alla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale. Ma in Italia l’obbligo vale solo per cave con superficie maggiore di 20 ettari, per cui la norma è il più delle volte aggirata.

I CANONI – Le entrate percepite dagli enti pubblici con l’applicazione dei canoni, inoltre, sono estremamente basse in confronto ai guadagni del settore. Il totale nazionale di tutte le concessioni pagate nelle Regioni, per sabbia e ghiaia, è di 17,4 milioni di euro, a cui bisognerebbe sommare le entrate della Sicilia che variano in funzione della quantità cavata, oltre a una piccola quota derivata dall’ampiezza dei siti estrattivi, come avviene in Puglia. “Cifre bassissime – sottolinea Legambiente – rispetto ai 467 milioni di euro all’anno ricavati dalla vendita”. In Valle d’Aosta, Basilicata e Sardegna non sono previsti canoni concessori. In Lazio, Umbria, Puglia e della Provincia Autonoma di Trento non si arriva al 2% di canone rispetto al prezzo di vendita di sabbia e ghiaia. “Se venisse applicato un canone come avviene in Gran Bretagna, pari al 20% dei prezzi di vendita – si spiega nel rapporto – gli introiti delle Regioni per l’estrazione di sabbia e ghiaia salirebbero a 93,5 milioni circa”.

LE BUONE PRATICHE E GLI OBIETTIVI – Tante le buone pratiche raccontate. Nei cantieri di demolizione realizzati dall’azienda dell’edilizia pubblica di Ferrara e nell’abbattimento dell’ospedale di Prato si è riusciti a recuperare il 99% di materiali dalle demolizioni selettive di edifici, da riutilizzare creando nuove imprese. “Possiamo trasformare rifiuti provenienti dalla siderurgia e dall’agricoltura in materiali da usare nei sottofondi stradali e nella creazione di mattoni – racconta Legambiente – o creare intere filiere di materiali ad impatto zero, come avviene in Sardegna o, ancora, rifare centinaia di chilometri di superfici stradali, piste ciclabili, aeree aeroportuali, con materiali riciclati al 100%”. Per farlo, però, occorre “dare sbocco a questi materiali rendendo possibile la loro applicazione per riqualificare il patrimonio edilizio e infrastrutturale”. Questo significa rafforzare la tutela del territorio, perché il quadro delle regole dalle attività estrattive è inadeguato (come si evince dai piani che contengono previsioni enormi di nuovi prelievi), ma anche “stabilire un canone minimo nazionale per le concessioni” e “ridurre il prelievo da cava attraverso il recupero degli inerti provenienti dall’edilizia e dal riciclo di rifiuti da utilizzare in tutti i cantieri”. E fare questo, però, è necessario ridurre il conferimento in discarica e rendere economicamente vantaggioso l’utilizzo di materiali provenienti da recupero e riciclo. La strada è obbligata e passa attraverso l’approvazione, da un lato, dei decreti End of waste per garantire il passaggio da rifiuti a materiali per le costruzioni e, dall’altro, dei Criteri ambientali minimi per le infrastrutture e per l’edilizia.

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