Hanno vinto loro. Per ora, forse, ma intanto ha ragione la stampa sportiva: vincono Coni, Federazioni, lobbies politiche e le associazioni sportive ancora rivolte al passato.
Perde una visione dello sport proiettata nel futuro e tutto resta fermo alle Legge 91 del 1981 sul professionismo sportivo.
E’ così che potremmo sintetizzare la situazione della Riforma dello Sport dopo l’approvazione di un provvedimento grazie al quale, nella conversione del decreto “sostegni”, l’entrata in vigore delle norme sulle tutele per il lavoro e l’abolizione del vincolo sportivo, subisce un pesante rinvio di un anno e mezzo: nulla accadrà prima del 31 dicembre del 2023.
A nulla sono serviti gli appelli di associazioni sindacali come Assist Ass. Nazionale Atlete, AIP Asso pallavolisti, AIC e Giba, a nulla l’appello dell’iniziativa Champs4Rirghts con cui la candidata alla presidenza del Coni e bi-olimpionica, Antonella Bellutti, aveva raccolto l’accorato invito di oltre 40 grandissimi campioni e campionesse perché finalmente si riconoscano tutele ai lavoratori dello sport (tra cui atleti e atlete).
L’alibi della “sostenibilità” del sistema, complice anche il momento di difficoltà del Covid, ha ancora una volta calpestato quello dei diritti fondamentali di chi lavora. E sarebbe sbagliato pensare che la responsabilità sia solo della politica sportiva: come sempre, invece, la politica dei partiti c’entra eccome, salvo richiamare all’autonomia dello sport con fanfare roboanti quando torna comodo. In questo caso, l’animo premuroso verso gli interessi dei datori di lavoro si è coalizzato da destra a sinistra e a nessuno è importato che per altri due anni e mezzo avremo circa 200mila lavoratori e lavoratrici dello sport senza la benché minima tutela.
Avremo ancora atleti e atlete divisi ancora in due: i fortunati dei gruppi sportivi militari (che ricordo costano solo per gli atleti normodotati 40 milioni di euro all’anno alla collettività) e gli sfortunatissimi delle società sportive. Quelli costretti a definirsi dilettanti, anche se fanno qualcosa che ha tutte le caratteristiche del lavoro subordinato, che non avranno contributi, pensione, TFR e tantomeno, se sei donna, uno straccio di tutela per la maternità. Esattamente come è accaduto a Lara Lugli che il 18 maggio dovrebbe addirittura andare sul banco degli imputati con l’unica colpa di aver desiderato un figlio, a stagione sportiva in corso.
In questo scenario brillano il silenzio e l’assenza di tre voci: la sottosegretaria allo sport Vezzali dalla quale mi aspettavo soprattutto una presa di posizione proprio sul caso della pallavolista Lugli; il presidente del CONI uscente, Malagò, forse appositamente silente per non urtare il votante Gravina? Infine la Commissione Nazionale Atleti, organismo rivelatosi negli anni inutile e non rappresentativo, se non per splendide gallerie di selfie sui profili Instagram.
A loro, verrebbe da chiedere, quale mondo dello sport piacerebbe costruire? E con quali valori, se non riescono a riconoscere diritti fondamentali a chi fa dello sport il proprio lavoro? Davvero pensano che l’unica maniera per dare loro uno straccio di tutele sia inserirli nei gruppi militari, depauperando vivai e squadre delle associazioni sportive? E di quale “sostenibilità” economica parleranno, quando diverranno pubblici i compensi delle consulenze per i Giochi Olimpici di Milano-Cortina?
Domande che rimangono aperte e chissà che qualcuno non vorrà provare a rispondere il 13 maggio, quando a Milano i quattro candidati per la presidenza del CONI (Bellutti, Di Rocco e Chimenti e Malagò) faranno la loro relazione. Noi e 4 milioni e mezzo di tesserati con le Federazioni Sportive Nazionali restiamo in sfiduciata attesa.