Cominciamo dalla fine. Oggi lo si può e lo si deve dire, forte e chiaro. Ci sono solo tre categorie di persone che, nel 2021, possono ancora considerare “vitale” il ponte sullo stretto di Messina: gli ignoranti, gli ottusi, gli ingordi. Ricapitoliamo sommariamente le puntate precedenti. Correva l’anno…

1971 – La legge n. 1158 istituisce la Stretto di Messina S.p.A;

1985 – “Il ponte presto si farà” (Bettino Craxi, presidente socialista del consiglio);

1986 – “Completamento degli studi entro l’anno, avvio dei lavori nel 1989 e completa agibilità del Ponte entro il 1996” (Romano Prodi, presidente democristiano dell’IRI);

1992 – Presentato il “Progetto di massima definitivo” (non è uno scherzo, non è un gioco di parole, si chiamava proprio così);

1996 – “Il ponte non peserebbe sulle casse dello Stato, in quanto capace di autofinanziarsi, e sarebbe un volano per lo sviluppo del Sud” (Massimo D’Alema, segretario del PdS);

1999 – Con la delibera n. 33 del 19 febbraio il Cipe prende atto della necessità di “procedere ad ulteriori valutazioni sul progetto” presentato dalla società Stretto di Messina SpA e dispone approfondimenti da parte di advisors;

2000 – Il ponte sullo stretto è nei programmi elettorali della coalizione di centrodestra (di proprietà del piduista Silvio Berlusconi) e di quella di centrosinistra guidata dall’ex radicale ed ex ‘verde arcobaleno’ Francesco Rutelli (che dal 2016, non si sa bene a che titolo, è presidente di Anica: associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive e multimediali);

2001 – Con la legge 443/2001 – detta legge Lunardi, dal nome dell’allora ministro berlusconiano dei trasporti, quello che “con la mafia bisogna convivere” – il Ponte diventa “infrastruttura strategica”;

2005 – “Costruiremo il ponte di Messina, così se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto, potrà andarci anche alle 4 di notte, senza aspettare i traghetti” (Silvio Berlusconi, presidente del consiglio);

2007 – “Anche l’ambiente deve concorrere perché le opere si facciano meglio e più in fretta, non perché non si realizzino. Non facciamo come i talebani che, poiché non vogliono le statue di Buddha, le distruggono” (Antonio Di Pietro, ministro dei Valori e delle infrastrutture);

2011 – “Confermo che il ponte si realizza in gran parte con capitali privati attraverso il project financing. I capitali pubblici servono solo per le opere a terra” (Altero Matteoli, ministro postfascista dei trasporti);

2012 – Il governo Monti prova a metterci una pietra sopra, mettendo in conto di pagare le penali per la non realizzazione del progetto. Purtroppo non sarà una pietra tombale. “Non esiste l’intenzione di riaprire le procedure per il ponte sullo stretto di Messina, anzi al contrario, il governo vuole chiudere il prima possibile le procedure aperte anni fa dai precedenti governi, e per farlo deve seguire l’iter di legge” (Corrado Clini, ministro tecnico dell’ambiente, condannato in primo grado per corruzione poche settimane fa);

2016 –Noi siamo pronti. Bisogna completare quella che Delrio chiama ‘Napoli-Palermo’, per non chiamarla ‘Ponte sullo Stretto’. Un’opera utile che porterà 100.000 posti di lavoro” (Matteo Renzi, presidente del consiglio);

2017 – “Noi consideriamo il ponte sullo stretto un’opera strategica per la Sicilia, la Calabria, ma soprattutto per l’Italia e l’Europa, un’infrastruttura grazie alla quale arriverebbero tutte le opere considerate minori” (Angelino Alfano, ministro berlusconianpopolare degli esteri; dal 2019, anche lui non si sa bene a che titolo, è presidente del Gruppo San Donato, colosso della sanità privata fondato dalla famiglia Rotelli con gran parte del patrimonio a Milano e una holding – Papiniano SpA – a Bologna);

2020 – “Sullo stretto dobbiamo pensare, quando ci saranno le condizioni, non ora, a un miracolo di ingegneria, una struttura leggera ed ecosostenibile, nel caso anche sottomarina, perché no. Tutte le ipotesi sono aperte e ne discuteremo apertamente” (Giuseppe Conte, presidente possibilista del Consiglio).

Il nocciolo della questione è che sulle presunte virtù del project financing ci/vi è stata raccontata una bugia: il rischio di impresa è in capo alla Stretto di Messina SpA, società di diritto privato con soci e capitale pubblici (Iritecna, Anas, Ferrovie e, con quote minime, Regione Calabria e Regione Sicilia). Capitali privati per realizzare un’opera pubblica: detta così sembra un affarone. La realtà purtroppo è diversa: per recuperare l’investimento solo con gli introiti di gestione ci vorrebbero tra i 150 e i 200 anni. E se non ci si riesce, chi copre le perdite? Pantalone, of course.

In sostanza, i profitti sono privati, i debiti saranno pubblici. Alla faccia del capitalismo keynesiano. Sono capaci tutti di fare gli imprenditori così: se sei garantito dallo Stato, quale banca (specie se “amica”) non ti finanzierebbe? Negli anni Duemila venne individuato un general contractor a cui affidare il lavoro: la multinazionale Impregilo SpA; adesso si chiama Webuild SpA, che in italiano vuol dire “noi costruiamo”: quasi uno slogan da ‘muratori’. Riusciranno i nostri antieroi a portare a termine la grande ‘impresa’, buttando nel cesso i (nostri) soldi in arrivo da Bruxelles? Speriamo di no. Anzi, speriamo che sia proprio l’Europa a impedire di farci, come al solito, del male da soli. Con buona pace degli amici degli amici.

In attesa di sapere cosa ne pensa l’attuale presidente del Consiglio, suggerisco di ascoltare le parole di Ivan Cicconi, un ingegnere comunista che di queste cose ne capiva molto. Molto più di me che scrivo e di voi che leggete. Ivan purtroppo non c’è più, un paio di giorni fa avrebbe compiuto 74 anni. Non c’era bisogno di essere comunisti per stimarlo ed essergli amico. Il minimo che possiamo fare, oggi, è non dimenticare quello che ci ha insegnato. Sul ‘modello Tav’ applicato alle opere pubbliche. E sui danni che lottizzazione, lobbismo e corruzione hanno fatto e continuano a fare in Italia e nel mondo.

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