L’ordinanza con cui il 15 aprile la Consulta ha affermato l’incostituzionalità dell'ergastolo ostativo, dando un anno di tempo al Parlamento per legiferare. Per i giudici il meccanismo che vieta di concedere ai boss irriducibili la libertà senza collaborazione con la giustizia è da definire come uno "scambio" tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità di accedere ai benefici penitenziari. "Per l’ergastolano ostativo che aspira alla libertà condizionale, questo scambio può assumere una portata drammatica allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine", si legge nel dispositivo della Corte, arriva a parlare di “scelta tragica"
La collaborazione con la giustizia per i mafiosi condannati all’ergastolo ostativo, cioè quelli irriducibili come i fratelli Graviano o Leoluca Bagarella, non può essere l’unica via per accedere alla liberazione condizionale. Un principio inventato da Giovanni Falcone e diventato legge dopo le stragi, che adesso la Consulta ha definito come incostituzionale. La Corte, infatti, ha pubblicato l’ordinanza con cui il 15 aprile scorso ha affermato l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con la Costituzione, dando un anno di tempo al Parlamento per riformulare la norma. “L’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata“, scrissero i giudici, ammettendo nei fatti che la loro decisione avrebbe potuto far aprire le porte del carcere ai boss delle stragi.
“Collaborazione scelta tragica per gli ergastolani” – La norma che il Parlamento dovrà riscrivere entro il 10 maggio dell’anno prossimo è l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario: vieta ai condannati al fine pena mai per fatti di mafia e terrorismo di accedere alla liberazione condizionale se non collaborano con la magistratura. Senza questa norma il giudice può concedere la libertà vigilata anche ai boss irriducibili, quelli che custodiscono i segreti delle stragi, a patto che abbiano scontato 26 anni di carcere. E senza che abbiano mai manifestato alcuna intenzione di collaborare con la giustizia: in pratica uscirebbero tutti. Oggi la Consulta, con un’ordinanza di 19 pagine redatta dal giudice Niccolò Zanon (già eletto dal Pdl al Csm nel 2010 e relatore anche alla sentenza che nell’ottobre del 2019 definiva incostituzionale la parte dell’articolo 4bis sul divieto di accesso ai permessi premio), spiega di considerare questo meccanismo – collaborazione in cambio di libertà – come una sorta di “scambio” tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità di accedere ai benefici penitenziari. “Per l’ergastolano ostativo che aspira alla libertà condizionale, questo scambio può assumere una portata drammatica allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine”, si legge nel dispositivo della Corte. La portata drammatica, dunque, non sono le stragi di civili degli anni ’90 ma la scelta che i boss devono compiere. “In casi limite –arriva a scrivere la Corte – può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli”. Insomma: secondo i giudici è incostituzionale pretendere che i mafiosi custodi dei segreti delle stragi raccontino quanto è di loro conoscenza prima di concedergli la libertà.
“Norma sancisce presunzione assoluta di pericolosità” – I giudici ovviamente mettono le mani avanti: “Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale”. Anche oerché, proseguono parte “l’appartenenza a una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo“. È quindi “ben possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche in esito a lunghe carcerazioni, proprio per le caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, come quella che generalmente viene espressa dalla collaborazione con la giustizia”. L’argomentazione dellaConsulta è la seguente: “Per i condannati all’ergastolo a seguito di reati connessi alla criminalità organizzata, tale disciplina, da una parte eleva la utile collaborazione a presupposto indefettibile per l’accesso (anche) alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico del detenuto non collaborante, una presunzione di perdurante pericolosità, dovuta, in tesi, alla mancata rescissione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. Una presunzione assoluta, perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa, che lo esclude in radice dall’accesso ai benefici penitenziari e, appunto, fra questi, alla liberazione condizionale”.
“La collaborazione non può essere l’unica strada per la libertà” – Nonostante tutto, però, per i giudici la “presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente”, cioè la finalità di rieducazione del detenuti. Dunque non è irragionevole presumere che l’ergastolano non collaborante mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza. Ma, continuano i giudici, “l’incompatibilità con la Costituzione si manifesta nel carattere assoluto di questa presunzione poiché, allo stato, la collaborazione con la giustizia è l’unica strada a disposizione dell’ergastolano ostativo per accedere al procedimento che potrebbe portarlo alla liberazione condizionale”. E ancora: “La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”.
“Intervento demolitorio avrebbe effetti disarmonici”- Tecnicamente per la Consulta “è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione; se questa possibilità fosse preclusa in via assoluta, l’ergastolo sarebbe invece in contrasto con la finalità rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, Costituzione). La vigente disciplina “ostativa” mette però in tensione questo principio”. E quindi “la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione”. E dunque come si fa a capire se è un boss che non collabora ha smesso di essere pericoloso? “A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino”. Quali elementi? Sarà il Parlamento a doversene occupare. Un intervento meramente “demolitorio” della Corte, infatti, “potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa”. Ecco perché sono stati concessi 12 mesi al legislatore per riscrivere l’articolo 4 bis. “Appartiene invece alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale”. Insomma su questo punto la corte riconosce il primato della politica: “Si tratta qui di tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono perciò i poteri di questa Corte. Come detto, esse pertengono, nel quomodo, alla discrezionalità legislativa, e possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale”. Per il Parlamento l’appuntamento alla Consulta è per il 10 maggio 2022. I boss irriducibili aspettano. E sperano.