Nelle tabelle del Pnrr il governo Draghi si impegna con la Commissione Ue a far calare del 15%, entro la fine del 2026 e rispetto ai dati del 2019, la cosiddetta "propensione a evadere". Cioè la differenza tra il gettito che l'erario incasserebbe in un mondo di contribuenti onesti e quello effettivo. Escludendo i contributi, la cifra è stabilmente sopra gli 80 miliardi l'anno dal 2001. Lieve calo per l'Iva grazie allo split payment: ora la sfida è aggredire con efficacia l'evasione Irpef di imprese e autonomi
È di circa 12 miliardi, su quasi 90 di tasse dovute e non pagate, l’obiettivo di riduzione dell’evasione fissato dal Recovery plan italiano per il 2026. La cifra emerge dalle quasi 2.500 pagine – tra Pnrr e schede tecniche – inviate a Bruxelles il 30 aprile. Nell’allegato che dettaglia tappe e obiettivi delle riforme, il governo Draghi si impegna con la Commissione europea a far calare del 15%, entro la fine del 2026 e rispetto ai dati del 2019, la cosiddetta “propensione a evadere“. Cioè la differenza tra il gettito che l’erario incasserebbe in un mondo di contribuenti onesti e quello effettivo. L’ultima Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva stima che nel 2018, ultimo anno disponibile, il gap tra imposte attese (al netto dei contributi) e incassi fosse del 29%, pari a 87 miliardi: ridurlo del 15% significa portarlo, nell’arco di cinque anni, intorno al 25%, a 75 miliardi.
I calcoli sono solo indicativi, visto che il riferimento sarà al valore stimato per il 2019, che verrà diffuso il prossimo autunno in occasione della Nota di aggiornamento al Def. L’obiettivo appare ambizioso, anche se meno di quanto auspicato dal numero uno delle Entrate Ernesto Maria Ruffini secondo il quale con l’innovazione tecnologica è possibile “dimezzare l’evasione fiscale nel giro di una legislatura”. Peraltro, stando al cronoprogramma descritto nel Pnrr, in un solo anno – tra fine 2025 e fine 2026 – l’Italia dovrebbe riuscire a mettere a segno un calo della propensione a evadere di ben 10 punti percentuali.
Il punto di partenza è che il tax gap (sempre escludendo i contributi) è stabilmente sopra gli 80 miliardi di euro l’anno dal 2001 e la media 2016-2018 si attesta a oltre 89 miliardi, stando alla relazione della commissione di esperti incaricata di valutare ogni anno le risorse sottratte alla collettività dagli evasori. Nel 2018, va detto, la cifra è diminuita di circa 5 miliardi rispetto all’anno precedente soprattutto grazie a una minore propensione a non versare l’Iva (anche se l’Italia resta prima nella Ue per evasione di questa imposta). Merito, secondo il Tesoro, dello split payment, il meccanismo introdotto nel 2015 che obbliga la pa e dal 2017 anche le aziende quotate sul Ftse Mib a trattenere e versare direttamente all’erario l’imposta sulle fatture emesse dai propri fornitori, senza che le somme transitino sui conti di questi ultimi.
Ora la sfida è affrontare con efficacia l’altro tasto dolente, l’evasione Irpef da parte di imprese e autonomi. Per l’imposta sul reddito il gap è addirittura del 67%, per oltre 32 miliardi sottratti al fisco. Complici controlli poco numerosi e poco produttivi. Per invertire la rotta il governo Draghi punta sul rafforzamento degli strumenti a disposizione dell’Agenzia delle Entrate, che potrà contare su 4.113 nuovi ingressi e 2mila assunzioni aggiuntive di professionisti come data scientist, informatici, esperti di fiscalità internazionale, ingegneri. Il sempre invocato incrocio delle banche dati dovrebbe diventare realtà grazie all’impiego di intelligenza artificiale, machine learning, text mining. Pratiche previste da tutte le best practice internazionali sulla valutazione del “rischio fiscale”. L’esecutivo è convinto che si possano impiegare senza problemi relativi alla privacy ricorrendo – come previsto fin dalla legge di Bilancio per il 2020 – alla cosiddetta “pseudonimizzazione dei dati”, una tecnica che consiste nel conservarli in modo da impedire l’identificazione del contribuente. Solo le posizioni “a rischio” vengono riportate fuori dall’anonimato per far partire le verifiche.
Entro il primo trimestre del prossimo anno saranno poi finalmente previste “sanzioni amministrative efficaci in caso di rifiuto” da parte degli esercenti “ad accettare i pagamenti elettronici“. La cui accettazione è già obbligatoria dal 2012, salvo che per chi pretende i contanti non sono mai state previste multe. Il tentativo fatto dal governo Conte di inserirle nel decreto fiscale è tramontato nel giro di una notte, nel dicembre 2019.
In parallelo sarà dato ulteriore impulso alle missive che “invitano” amichevolmente i contribuenti ad adempiere ai doveri fiscali. Entro il quarto trimestre 2022, secondo il cronoprogramma fissato nel Piano di ripresa, dovrebbe salire del 20% il numero di lettere di compliance inviate, da cui ci si aspetta un +15% di gettito (+30% due anni dopo, quando dovrebbe essere inviato un 40% di lettere in più rispetto al 2019). Nel frattempo arriverà anche per le partite Iva la dichiarazione precompilata: entro metà 2023, stando al Pnrr, potranno scaricarla 2,3 milioni di autonomi. La tappa successiva è fissata per il quarto trimestre 2025, quando dovrebbe essere portata a termine la pseudonimizzazione dei database e se tutto va bene la propensione a evadere sarà calata del 5% sul 2019. A quel punto ci sarà solo un anno per un’accelerata senza precedenti che dovrebbe farla scendere di altri 10 punti percentuali entro la fine del 2026. Quando la Commissione, che nelle raccomandazioni all’Italia cita sempre l’evasione tra i punti deboli da affrontare, verificherà che l’obiettivo sia stato raggiunto.