L'esercito israeliano ha seguito l'usuale protocollo che si attiva ormai di default quando dalla Striscia di Gaza partono dei missili. 24 le vittime palestinesi. Nella città santa tutto era iniziato con un ordine di "sfratto", al quale ha fatto poi seguito una rabbiosa protesta, repressa duramente dalle Israel Defense Forces
Il fondo del barile, alla fine, è sempre Gaza a doverlo toccare. Sono almeno 24 le persone – di cui 9 bambini – uccise durante i bombardamenti israeliani nella Striscia: una “risposta” al lancio di sei razzi qassam effettuato da formazioni militari palestinesi verso le città di Ashkelon e Ashdod, ai quali si sono aggiunti – come contro rappresaglia ai bombardamenti di Tel Aviv su circa 140 “obiettivi” – una quarantina di missili Grad, che secondo i media israeliani hanno provocato un ferito grave.
Le Israel Defense Forces hanno soprannominato l’operazione sulla Striscia “Guardiano delle mura”: e quando gli apparati di Tel Aviv danno un nome ad una operazione militare, esistono delle ragioni per credere che questa carneficina sia solo l’inizio. Per registrare un numero di vittime palestinesi così elevato in così poche ore bisogna tornare al 2014, durante l’operazione “margine protettivo”.
L’esercito israeliano ha seguito l’usuale protocollo che si attiva ormai di default quando dalla Striscia di Gaza partono dei missili, missili che vengono perlopiù intercettati da Iron Dome. Il lancio di razzi da parte delle brigate Izzedine al Qassam (l’ala militare di Hamas) è iniziato nella giornata di lunedì, facendo seguito all’ultimatum che la stessa Hamas aveva indirizzato alle IDF e fatto circolare a partire dal giorno precedente, rispetto a quanto stava accadendo nei pressi della moschea Al Aqsa, a Gerusalemme.
Nella città santa tutto era iniziato con un ordine di “sfratto”, al quale ha fatto poi seguito una rabbiosa protesta, repressa duramente dalle IDF. “Sfratto” è un termine che tecnicamente descrive in modo corretto quel che è stato disposto nei confronti di alcune famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, ma che fallisce nel descrivere la realtà sostanziale, nonché le sue premesse.
Il nodo di Sheikh Jarrah – È un quartiere che prende il nome dal medico personale di Salahuddin (Saladino), che qui si trasferì dopo la cacciata dei crociati da Gerusalemme nel 1187. All’inizio del secolo scorso, quando la Palestina era ancora parte dell’Impero Ottomano, il quartiere venne popolato da famiglie della borghesia palestinese, desiderose di allontanarsi dal crescente caos degli angusti vicoli della città vecchia. Nel 1956, meno di dieci anni dalla fondazione dello Stato ebraico, altre 28 famiglie palestinesi si trasferirono qui dopo alcuni anni di semi-nomadismo: erano infatti a loro volta una porzione dei circa 750mila palestinesi espulsi dalle città in cui vivevano prima del 1948, appena divenute parte integrante di Israele.
A “garanzia” di questo loro trasferimento si pose il Regno di Giordania, che amministrava la West Bank e si occupò di costruire le abitazioni per queste famiglie, in accordo con l’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees). Nel corso degli anni ’60 si tenta di andare anche oltre: in cambio della rinuncia allo status di rifugiati, il governo giordano promette a queste famiglie di renderle proprietarie delle loro terre e case a Sheikh Jarrah. Tutto, però, si interrompe con la guerra del 1967, nella quale Amman perde il controllo dei territori e Israele procede con le annessioni (quella del Golan, ad esempio, annesso unilateralmente nel 1980).
Sebbene il cambiamento delle circostanze geopolitiche mantenesse “pendente” il loro status legale, una quarantina di famiglie palestinesi hanno continuato a vivere a Sheikh Jarrah, accontentandosi del fatto di essere non lontani dall’Haram al Sharif – all’interno del quale c’è la moschea di Al Aqsa -, ossia il terzo luogo sacro per i musulmani.
La conquista di alcuni territori nel 1967 e l’occupazione israeliana di Gerusalemme est hanno poi rafforzato le rivendicazioni dei coloni israeliani, da sempre decisi a cacciare i palestinesi dalla città in ossequio all’idea di appropriarsi in via esclusiva – attraverso la costruzione di insediamenti coloniali illegali – del “bacino sacro”, l’area che comprende la città vecchia di Gerusalemme e i territori appena circostanti. A partire da quegli anni diverse organizzazioni di coloni – come Ateret Cohanim – hanno più volte reclamato in tribunale la proprietà di Sheikh Jarrah, spesso riuscendo a “sfrattare” i palestinesi.
La legge israeliana, peraltro, li aiuta non poco, basandosi su una chiarissima asimmetria: solo gli ebrei – non i palestinesi, né quelli cristiani né quelli musulmani, come dimostra il caso di Sulaiman Darwish Hijazi nel 2005 – hanno diritto di reclamare la proprietà di una terra presentando documenti e contratti precedenti al 1948. La questione è divenuta d’attualità con l’aumento delle violenze in questi giorni ma questo genere di sfratti “supportati” da documenti di 100 anni fa, e che possono essere impugnati solo da ebrei, non sono certo una novità: già lo scorso novembre un tribunale israeliano aveva accolto la denuncia di Ateret Cohanim, ratificando così l’ordine di sfratto ai danni di 87 palestinesi che da 1963 vivono nel quartiere di Silwan, a sud della moschea al Aqsa. Ateret Cohanim ha sostenuto che l’area fosse di proprietà di ebrei yemeniti che abitavano lì fino al 1938, quando furono dislocati altrove dalle autorità britanniche.
Oggi a Sheikh Jarrah vivono quasi una quarantina di famiglie palestinesi: a quattro di esse – gli Iskafi, i Kurd, i Qassem ed i Jaanoi – la Corte Suprema israeliana ha ordinato domenica scorsa di evacuare con effetto immediato (o meglio, il limite è stato fissato per il 6 maggio, già passato), dopo 4 anni di vani ricorsi inascoltati tra diversi tribunali locali. Alcuni ricordano che nel 1991, 24 famiglie sfrattate a Sheikh Jarrrah accusarono i loro stessi avvocati (israeliani) di aver falsificato le firme in cui avrebbero attribuito la proprietà delle loro case ad alcuni coloni. Ad altre 3 famiglie – gli Hammad, i Daoudi e i Dagani – è stato concesso fino al 1 agosto per lasciare il quartiere, e dall’inizio del 2020 sono in totale 13 le famiglie palestinesi su cui pende un ordine di sfratto.
La “Città di David” – In concreto, questi ordini di sfratto durante la presidenza Netanyahu – forse il presidente israeliano più vicino ai coloni – vanno anche nella direzione di una “rimodulazione” dell’intera area, del sostegno alla costruzione di una funivia che dovrebbe passare proprio sopra Silwan, e servire un bizzarro progetto israeliano in itinere dal 1995: si tratta del complesso della “Città di David”, ideato dall’Autorità per le antichità col sostegno della fondazione di coloni “Ir David”, che ufficialmente sarà una attrazione turistica evocante l’esistenza della trimillenaria città ma che di fatto rafforzerebbe la posizione di circa 500 coloni – che attualmente non avrebbero diritto di vivere a Silwan -, costringendo quasi 10mila palestinesi a vivere ai suoi margini.
Non sorprende, quindi, che centinaia di palestinesi a partire da venerdì siano scesi in piazza non solo per celebrare la fine del Ramadan ma anche per rivendicare quella che ritengono una ingiustizia, e che specularmente i coloni israeliani considerano un atto di piena giustizia.
La corrispondenza tra questi ordini di sfratto, la fine del Ramadan e la marcia (il “giorno di Gerusalemme”) a cui migliaia di israeliani partecipano per festeggiare l’occupazione di Gerusalemme nel 1948 hanno prodotto una miscela che si è infiammata subito, con scontri tra palestinesi – perlopiù disarmati – e coloni (molti dei quali armati), con il decisivo contributo delle Forze di sicurezza israeliane, che dapprima hanno permesso ai coloni di agire indisturbati contro i palestinesi radunati sulla Spianata delle Moschee, e poi in moschea – quella di Al Aqsa – sono entrati, durante la preghiera, a colpi di granate stordenti e proiettili di gomma, provocando diverse centinaia di feriti.
Lo Statuto di Roma, che nel 1998 ha istituito la Corte Penale Internazionale dell’Aja, esplicita chiaramente che “chiunque diriga intenzionalmente i suoi attacchi contro edifici adibiti al culto religioso, all’arte, all’educazione, alla scienza ed a propositi caritatevoli o culturali, sta commettendo un crimine di guerra”.