Qualcosa deve cambiare: pena l’emarginazione. Siamo a pieno regime in un sistema “neocapitalista”. Ma che cosa significa “Paese neocapitalista“? Se leggiamo queste parole con l’ottica di sempre saremmo subito fuori strada. La differenza fra prima e dopo sta in quella parolina, “neo”, che nasconde una trasformazione fra prima (capitalista) e dopo (neo-capitalista).
Come sempre grandi fenomeni storici hanno basi e motivazioni lontane nel tempo. Oggi siamo agli effetti (probabilmente i penultimi) della decisione grave di Bill Clinton del 1999 (abolizione della legge Glass-Steagal Act). L’Italia, pur senza leggi specifiche, come tutti i Paesi “evoluti” ci si è allineata subito, ma, ahinoi, senza avere banche del calibro di J.P.Morgan o di Goldmann Sachs. E proprio qui starebbe il nostro guaio: la nuova visione finanziaria mondiale è troppo ghiotta per non coinvolgere quelle banche che ci si possono anche solo avvicinare.
Così il normale lavoro di credito all’economia reale, cioè alle fabbriche impegnate nella produzione di beni e servizi, è diventato più laborioso. Mentre quello finanziario-speculativo molto, molto più ghiotto. Questa situazione è molto particolare: essa va rapportata allo stato odierno del nostro sistema manifatturiero, centro essenziale per la sopravvivenza del Paese e per il futuro dei nostri giovani. Tralasciamo ogni considerazione sui temi – importantissimi – del mondo alimentare e del mondo della moda, che, per fortuna, hanno problemi molto più ridotti. Dobbiamo fare un passo indietro.
Ancora alla fine del secolo scorso avevamo un conglomerato industriale (Iri – i tedeschi direbbero “kombinat”) che era il settimo al mondo. Si chiamava Iri, Istituto per la Ricostruzione Industriale. Al suo interno c’erano aziende della più varia dimensione e delle più varie specialità, molte delle quali erano competitive sul piano internazionale: sviluppava tecnologie anche molto complesse in grado di soddisfare esigenze di Stati. Fu, al di là delle meschine critiche politiche, un grande incubatore di tecnologia che, attraverso i suoi “quadri”, rifluì nelle aziende private più piccole, che così crebbero ed entrarono in circuiti di business internazionali.
Nel 1993, a seguito di pressioni politiche nazionali (molto meschine) e finanziarie internazionali, l’Iri venne chiusa. Difficile percepire subito il profondo cambiamento della morfologia ma anche della sostanza del quadro industriale italiano. Ora si può dire però che quel che più cambiò fu la dimensione media delle nostre imprese. Restavano, è vero, ancora alcune aziende ex-Iri di proprietà dello Stato italiano. Ma la dimensione media era determinata dal nugolo di imprese private nelle quali la frammentazione era vastissima. I capitali propri erano mediamente piccolissimi.
Quel che, in buona sostanza, accadde fu che la struttura industriale del sistema manifatturiero italiano si trasformò: il Paese divenne sede di una forte ma estremamente frazionata industria di subfornitura. Un’industria praticamente gregaria e subordinata al servizio di industrie di altri Paesi che invece operavano nel settore del “prodotto finito” e non del componente. Il tallone d’Achille di questo tipo di industria, impegnata nella subfornitura di componenti, facilmente controllabile dalle aziende clienti difficilmente fidelizzabili, è quello costituito dalle necessità di continui aggiornamenti tecnologici, il che significa seguire attentamente le evoluzioni tecniche dei macchinari, il che significa fabbisogni finanziari per investimenti quasi continui.
Ma si ponga la dovuta attenzione: se per primo acquisto una macchina per fare magliette, la più moderna e performante, dopo poco tempo anche altri produttori di magliette la compreranno, magari anche dotati di costi del lavoro più bassi dei miei, e sarò costretto ad una continua lotta sui prezzi per conservarmi la clientela. Posso davvero continuare la mia vita economica in questo modo? Non è forse una strada a fondo cieco, abbastanza inaccettabile?
Qualcuno sussurra che bisogna programmare una ricostruzione industriale del Paese, nel senso di una sorta di “bis” dell’Iri – e di questa visione personalmente sarei un fortissimo sostenitore – soprattutto tenendo conto che la nostra gente, abituata da secoli di predazioni straniere, possiede una sorta di “culto del risparmio privato” (il più alto al mondo, si sussurra) spesso convogliato verso investimenti stranieri (stiamo allegramente aiutando i successi manifatturieri stranieri). Ma il sistema finanziario internazionale, che di quel risparmio si nutre con solerzia ed allegria, mostra una forte opposizione all’idea, pilotando parte del sistema politico italiano (partiti, tradizionalmente non indipendenti economicamente) contro…
Ormai siamo anche noi preda del “reale” potere politico che si associa nei fatti all’enorme potere finanziario di origine clintoniana. Difficilissimo evitarlo, assurdo pensare di modificarlo. Nasce una pressante domanda: e allora che si può fare? Si può continuare così? È chiarissimo che la domanda, così posta, è del tutto oziosa come l’ipotesi di una risposta… di continuità.
La risposta non può che venire da due parti: dalla Politica (quella “alta”, non quella politicienne) e dal corpo imprenditoriale. Governo e Confindustria, per semplificare. Dati limiti “veri” delle iniziative politiche, quelli che vengono dal grande mondo finanziario, qualsiasi governo italiano non può che cercare soluzioni parziali che non coinvolgano la necessità di macro investimenti. Ma di questo abbiamo già discusso a lungo, con purtroppo totale sordità da parte del nostro sistema governativo.
Per quanto riguarda l’area imprenditoriale, che è una componente sociale essenziale che non può permettersi di stare zitta e di non avere proposte, l’idea di una strategia di Middle Technology potrebbe risultare una via d’uscita probabilmente vincente.