Sono stati mesi difficili e angosciosi per chi era titolare di un bar o ristorante. Molti, dopo l’estate scorsa, avevano adeguato i locali secondo le misure richieste, salvo poi essere chiusi lo stesso questo autunno. Il poco lavoro che c’è stato è stato soprattutto quello dell’asporto, non sufficiente certo a compensare la mancanza di entrate. Molti ristoratori e baristi hanno chiuso per sempre. Uno di loro, a Roma, l’altro ieri si è tolto la vita.
Insomma, sicuramente questa categoria ha vissuto una tragedia innegabile, e personalmente ho sempre condiviso le loro proteste, anche perché credo che la pandemia sia stata vissuta diversamente da chi aveva un posto al caldo, sicuro al cento per cento e pubblico e chi invece non ha avuto nessuna certezza. Il tragico di questa pandemia è che o si muore di Covid-19 oppure di fame, ma la seconda opzione spesso è stata sottovalutata.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, a prima del virus. La situazione era ben diversa. Almeno nella città dove abito i ristoratori spesso erano i primi a non rispettare le regole. Quelle di divieto di occupazione di suolo pubblico ad esempio, con tavolini messi illegalmente e che solo battaglie estenuanti di singoli cittadini oppure di consiglieri municipali riuscivano a far retrocedere, spesso subendo minacce di ogni tipo. Nel mio quartiere, sovente, i ristoranti utilizzavano i secchioni dell’indifferenziata per buttare qualunque cosa, magari di notte o all’alba, non visti. La maggioranza cercava di accalappiare un turismo di basso livello, cercando di spacciargli carbonare surgelate e pizze con le cozze. Insomma, non proprio un modello sostenibile. Anzi. E spesso con atteggiamenti arroganti, se non talvolta violenti.
Dopo un anno e mezzo di agonia, tuttavia, era evidente che aiutare questa categoria era giusto. Il problema è stato, al solito, come lo si è fatto. E cioè principalmente non attraverso sostegni consistenti ma soprattutto mirati, ma attraverso la deregulation totale, unita al tempo stesso a divieti abbastanza assurdi. Mi spiego: anche se ci stavamo avvicinando ad una fase di coperture ampie di vaccini, si è escluso che potessero lavorare all’interno, pure con grandi locali ventilati, mentre si è aperta la ristorazione sui tavoli esterni – faccio notare che nelle regioni gialle questo inverno si è potuto sempre stare all’interno dei bar o ristoranti tranne a cena: e allora perché?.
Ora, a parte gli esiti paradossali della misura – mi è capitato di magiare una pizza stretta insieme ad altri su pochi tavolini precari esterni sotto un tendone che gocciolava per la pioggia, quando il locale interno della pizzeria era enorme, con le pale per la ventilazione che giravano a vuoto – questo ha prodotto un effetto devastante per le città. Semplicemente si è dato il via libera non solo ai tavolini sui marciapiedi, ma al montaggio di enormi pedane ovunque i ristoratori vogliano.
In pochi giorni, almeno qui a Roma, interi quartieri sono stati invasi da tavolini e pedane. Dove? Sui posti per i parcheggi ovviamente, o comunque dove possibile. Solo i parcheggi per disabili sono stati risparmiati. Il caso del Caffè Greco di via Condotti è emblematico: diverse pedane di molti metri che hanno creato letteralmente un lunghissimo corridoio a coprire le vetrine. Altrove, appunto, intere strade sono state occupate per permettere alle persone di mangiare fuori. Anche sotto le finestre di case di privati. Ovunque e senza limiti.
I ristoratori non pagheranno alcuna tassa sui tavolini fuori e questo in parte è comprensibile. E potranno stare, almeno per ora, altri sette mesi, che sono un’enormità. Ma il vero paradosso è che dai primi di giugno potranno operare anche all’interno. E allora, mi chiedo, che senso ha avuto fargli occupare mezza città se poi dopo un mese potranno lavorare anche all’interno? Tra l’altro basta dare un’occhiata per capire che, se i turisti non tornano, i tavolini restano per lo più vuoti, o comunque non occupati pienamente.
Il problema vero, tuttavia, è che tornare indietro sarà impossibile. Dopo che i ristoranti avranno montato pedane fisse sulle strade chi riuscirà a fargliele smontare? Specie se ci capiterà, ad esempio a Roma, un altro assessore allo sviluppo economico e al turismo come Andrea Coia, che sarebbe perfetto in una giunta di centro destra, anzi destra e basta, e che rappresenta unicamente la voce dei ristoratori nel disprezzo totale dei residenti. Tanto da proporre, addirittura, di pedonalizzare a pranzo e cena alcune strade per favorire la ristorazione (!) Tanto da arrivare a dire che i baristi, cosa che oggi è possibile, possono mettere su strada addirittura i banconi.
Certo, l’emergenza è emergenza, governare è difficile specie quando le persone disperate sfilano sotto la tua finestra e le persone che non mangiano occorre pur aiutarle. Ma qual è il modello post pandemia che vogliamo? Lo stesso di prima? Il turismo insostenibile? La ristorazione selvaggia che nei centri storici ha come obiettivo principale spennare i turisti? Il famoso modello Disney, con i palazzi trasformate in b&b e i residenti che se ne vanno? E comunque i ristoratori non sono tutti uguali: perché non fare distinzioni? Ma poi ci servono davvero tutti quei ristoranti? Non si potevano aiutare alcune categorie a modificare la loro offerta?
Purtroppo quel modello di turismo completamente deregolato non è quello che ci traghetta nel futuro. Prima della pandemia si lottava tavolino per tavolino per tutelare decoro e legalità. La battaglia contro il contro tavolino selvaggio era sfiancante e spesso fallimentare. Virginia Raggi a Roma, tuttavia, nonostante Coia e altri pro-deregulation, era riuscita a imporre un minimo di legalità. Ma ora, con le decisioni del governo, siamo oltre: siamo al tavolino, anzi al bancone, ruggente. I centri delle città si sono trasformati in mangiatoie a cielo aperto. E se capisco la gioia di chi può tornare a lavorare, penso, ripeto, che così non andremo da nessuna parte. Si tampone l’emergenza, sì: ma qual è il nostro orizzonte – al di là di una sopravvivenza che cambia, e in peggio, il volto delle nostre città?