Il presidente dell'Autorità palestinese ha fornito ai suoi connazionali un altro motivo per protestare contro la sua stessa leadership palestinese, su cui spesso "pende" l'accusa di "collaborazionismo" e sudditanza verso Israele: il rinvio delle elezioni parlamentari palestinesi. Mentre il leader del Likud teme la formazione di un governo senza di lui, così alza la posta del settarismo interno
Anche se i fatti di sangue di questi giorni a Gerusalemme e Gaza occupano le colonne dei principali media occidentali, l’ennesimo ciclo di violenze è arrivato in una particolare congiuntura di politica interna, tanto in Palestina quanto in Israele. E a ben guardare, le due situazioni interne si sono in certa misura intrecciate, influendo l’una sull’altra.
Palestina, Abu Mazen rinvia le elezioni e mantiene il potere
Più o meno contemporaneamente all’emissione da parte della Corte Suprema israeliana di ordini di sfratto nei confronti di alcune famiglie palestinesi residenti nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas aveva fornito ai suoi connazionali – o almeno a una parte di essi nella West Bank – un altro motivo per protestare contro la sua stessa leadership palestinese, su cui spesso “pende” l’accusa di “collaborazionismo” e sudditanza verso Israele: il rinvio delle elezioni parlamentari palestinesi, previste per il 22 maggio, che si sarebbero dovute tenere dopo oltre 15 anni dall’ultima volta, e per le quali si erano registrati oltre il 90% dei palestinesi in età per votare.
Le modalità con cui le elezioni – quelle parlamentari, mentre quelle presidenziali sono previste per il 31 luglio – sono state rinviate getta una luce sulla frammentazione politica della società palestinese. Nel corso di un meeting convocato due settimane fa a Ramallah dallo stesso Abu Mazen, il presidente dopo aver giustificato il rinvio riferendo al pubblico che “gli israeliani ci hanno detto che non abbiamo il permesso di votare nel distretto di Gerusalemme est”, si è spinto anche oltre dal punto di vista scenografico. Ha letto, sconsolato, un messaggio ricevuto sul cellulare dall’Intelligence israeliana: “Ci scusiamo, cari vicini, per non potervi dare una risposta riguardo al voto a Gerusalemme. La ragione è che non abbiamo in questo momento un governo in grado di decidere” (dal 23 marzo c’è un governo reggente, ndr). “Non andremo al voto, se non possiamo votare a Gerusalemme”, aveva concluso Abbas.
Hamas, che aveva boicottato il meeting nella consapevolezza dell’imminenza di questo annuncio, ha reagito subito in modo duro, definendo l’iniziativa “contraria al percorso di partnenariato e unità nazionale”. In un comunicato più lungo, il portavoce del movimento islamista ha poi chiarito la divergenza strategica che separa i due campi, spiegando come il boicottaggio del meeting si deve al fatto che il rinvio delle elezioni da parte di al-Fatah era atteso dai vertici di Hamas. “Abbiamo già chiarito alla leadership di Fatah che saremmo stati pronti a partecipare al meeting se si fosse incentrato sul discutere modalità e meccanismi con cui imporre le elezioni a Gerusalemme, contro l’occupazione israeliana”, si legge nella dichiarazione che rigetta l’idea di un governo temporaneo di unità nazionale.
Una postura che fa luce sulla distanza tra le due formazioni palestinesi: la prima, Hamas (ma anche altre formazioni minori, concordi nel boicottaggio), pericolosamente salda sul “muro contro muro”, anche a costo di alti tributi di sangue, quelli che avrebbero seguito una imposizione del voto contro il volere israeliano. La seconda, Fatah, pericolosamente appiattita su posizioni succubi.
Nabil Diab, un membro dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, formazione minore guidata dall’ex ministro palestinese Mustafa Barghouti, ha approfondito su The Media Line cosa i palestinesi avrebbero dovuto fare in concreto, anziché rinviare le elezioni: “Il voto è un nostro diritto acquisito, che deve essere sottratto all’occupazione”, ha commentato suggerendo poi forme di battaglia non violenta, con la distribuzione di urne elettorali nel giorno delle elezioni in tutta Gerusalemme est, in modo da “dimostrare alla comunità internazionale come l’occupazione israeliana sta opprimendo i palestinesi, mostrando la sua vera natura razzista che le impedisce di essere o diventare democratica”.
Secondo diversi analisti, la decisione di Abbas non ha avuto solo l’effetto di aumentare la frustrazione dei palestinesi o di saldare la protesta esplosa rispetto a Sheikh Jarrah. Non ha nemmeno solo influito negativamente sulle relazioni tra Hamas e Fatah, bensì sulla vitalità delle altre fazioni palestinesi, che in questa tornata elettorale avevano anche discrete chances di ottenere dei seggi. Secondo l’analista palestinese Mohammad Hijazi, diverse formazioni come il movimento Mustaqbal (Futuro) guidato dall’ex leader di Fatah, Mohammad Dahlan, o la lista Hurriyah (Libertà), guidata dall’ex leader della fazione Tanzim di Fatah, Marwan Barghouti (tuttora in carcere), hanno perso la possibilità di fare la differenza all’interno delle strutture dell’Autorità palestinese.
L’indignazione di Hamas rispetto al rinvio del voto appare invece artificiosa e calcolata, forse alimentata da Turchia e Qatar. A Gaza, Hamas rimane in qualche modo aggrappata a un potere più che decennale, dei cui benefici finanziari approfitta per mantenerlo saldo. Se ci fossero delle elezioni ci sarebbe il rischio per Hamas di dover fare i conti con una nuova Assemblea legislativa e un nuovo governo che forse la incalzerebbe sul controllo della Striscia. Non uno scenario augurabile per Hamas, che potrebbe aver condannato pubblicamente il rinvio delle elezioni più per mettere in imbarazzo Abbas che per altri motivi.
Netanyahu teme un governo Lapid: così strizza l’occhio ai coloni
La menzione del messaggio che le autorità israeliane avrebbero mandato ad Abu Mazen chiarisce, invece, quanto il destino dei palestinesi non dipenda solamente dalla presenza o dall’assenza di conflitto militare, o dalla condotta della loro leadership, ma anche dalla situazione politica in Israele. Il premier Netanyahu è stato di fatto “spodestato” da Yair Lapid, a cui è stato attribuito un mandato esplorativo per formare un nuovo governo (tuttora molto complicato, vista la necessità di trovare sintesi con Naftali Bennett).
Non sorprende l’assenso alle operazioni su Gaza di questi giorni, poiché storicamente il premier del Likud alimenta i propositi di guerra quando deve spostare l’attenzione del pubblico – serrandone le fila – da questioni di politica interna. In questo caso, le questioni sono più che altro giudiziarie, con i tre processi per corruzione che Bibi dovrebbe affrontare (l’immunità giudiziaria in Israele vale solo per il premier in carica, non per gli ex, ndr).
Il pericolo, mentre l’arena politica israeliana cerca un’alternativa dopo quasi due decenni di sostanziale dominio del Likud, è che Netanyahu sia disposto – man mano che le possibilità di un governo alternativo crescono – ad alzare la posta del settarismo per serrare le fila della società israeliana, solleticando in vari modi le pretese dei coloni. Su Haaretz, Louis Fishman avvertiva abbastanza chiaramente sul rischio che Bibi voglia “portare Israele alla guerra civile tra ebrei e palestinesi“. Quel che è accaduto nei giorni scorsi rischia di esserne la premessa.