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L’alpinismo himalayano ormai è uno spettacolo sempre più desolante

È uno spettacolo sempre più desolante, ormai, quello del cosiddetto alpinismo himalayano. In questi giorni il poverissimo Nepal è aggredito dalla pandemia, ormai quasi come la vicina India, e il contagio dilaga fino ai campi base di due degli Ottomila più battuti (Everest e Dhaulagiri). Tra l’altro questa primavera, per far ripartire l’economia del turismo e rimpinguare le malconce casse dello Stato dopo il 2020 di crisi, i nepalesi hanno concesso un numero eccezionale di permessi di scalata in cambio di qualche decina di migliaia di dollari.

Di tutto il consueto carosello d’immagini che accompagna l’assalto agli Ottomila quest’anno, per adesso, i media hanno festeggiato la vetta già raggiunta dagli sherpa che attrezzano puntualmente la salita con corde fisse, scalette e ancoraggi per agevolare il via vai dei ricchi turisti-alpinisti stranieri, con il record della 25esima volta in cima per l’eccezionale guida Kami Rita, recordman anche per numero di salite agli Ottomila. Ma non è stato certo un caso paragonabile alla conquista del K2 invernale.

C’è stata anche qualche sterile polemica per la decisione del Nepal di stabilire veri e propri turni di salita per ogni finestra di bel tempo, al fine di evitare l’assembramento sul tratto finale e le fatali code a ottomila metri di appena due stagioni fa.

Ma l’immagine più imbarazzante arrivata dal campo base è sicuramente quella delle cataste di bombole d’ossigeno, almeno quattro per ognuno dei trecento e rotti clienti degli sherpa, cui vanno aggiunte quelle per le guide. Questo mentre in Nepal gli ospedali sono al collasso e non hanno più mezzi per affrontare la pandemia. S’aggiunga che le evacuazioni dei clienti stranieri infettati dai campi base degli Ottomila sono avvenute in elicottero, in gran parte mascherate da diagnosi di edema polmonare da “aria sottile”, il principale rischio sanitario degli aspiranti scalatori degli Ottomila, per poter attivare l’intervento assicurativo.

Siamo arrivati al punto che la Cina ha annunciato di voler irrigidire i controlli, addirittura provvedendo in qualche modo a erigere una barriera d’alta quota, per evitare che gli alpinisti-turisti partiti da Katmandu possano sconfinare sul versante settentrionale del Tetto del Mondo, con il rischio di riportare il contagio nel territorio controllato dalla Repubblica Popolare. La dirigenza comunista guidata da Xi Jinping nutre grandi ambizioni sulla fruibilità turistica delle proprie montagne, al punto che la passata stagione, con le scalate sospese causa pandemia, è stata utilizzata dal governo per sperimentare l’estensione della rete 5G alle quote più alte.

Un piccolo povero “Stato cuscinetto” come il Nepal, che ha nelle sue montagne una risorsa non indifferente, anche grazie all’etnia sherpa (le migliori guide si configurano ormai come una sorta di nuova borghesia internazionale), rischia dunque di essere sempre più schiacciato tra i due giganti confinanti, tra la pandemia e l’economia, tra il dissesto ecologico e la salvaguardia dei suoi tesori naturali. E speriamo che quest’altra squallida pagina che si sta scrivendo in questi giorni serva almeno a ripensare la scena del cosiddetto alpinismo himalayano, una delle più ipocrite vergogne neo-coloniali mascherate da sport.

Ma il problema tragico è che l’opinione pubblica occidentale, apparentemente così sensibile a tanti nuovi diritti, sembra ormai totalmente indifferente per esempio nei confronti dello sfruttamento razziale e persino schiavistico legato ai grandi eventi e in generale alle discipline sportive così come si sono configurate, in termini di apparato di business, lecito e illecito (scommesse, doping, compravendita di atleti, ecc.) nel tardo capitalismo affaristico dominante.