Volevo nascondermi di Giorgio Diritti ha trionfato ai David di Donatello e ritorna in sala domani 13 maggio 2021. Questa la recensione del FattoQuotidiano.it quando il film, dopo il premio a Berlino nel 2020 per Elio Germano,12 uscì nelle sale a pandemia di coronavirus appena iniziata.
Se si leggono le recensioni dei grandi siti statunitensi – Variety, Hollywood Reporter – “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti sarebbe un film senza un filo narrativo. Lo scrivono sessanta volte. Come se fosse un difetto. Una di quelle mancanze scritte nel libretto delle istruzioni del bravo cineasta che prima vende nei circuiti art house degli Stati Uniti il proprio talento visivo, e poi finisce a girare serie tv spiritose ed insignificanti come una lavastoviglie a colori. Paolo Sorrentino, per dirne uno. Pensate un po’, la storia del pittore naif Antonio Ligabue, quella di un appestato, decerebrato, idiota, sgorbio isolato da tutti (“tu sei un errore”), che si scopre suo malgrado artista finanche celebrato, con le dovute distanze umane e sociali, deve avere un filo narrativo. Magari una voce fuori campo come ne “L’amica geniale” su Rai1 che sottolinei l’impossibile. Oppure un bravo sceneggiatore che costruisce scenetta dopo scenetta, rigorosamente in ordine cronologico, la nascita, l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, la fine del pittore emiliano che perì appena 53enne.
Invece no. Diritti che comunque ad un certo ordine di scrittura ci aveva abituato (“Il vento fa il suo giro”, “L’uomo che verrà”, “Un giorno devi andare”) pennella la sua tela cinematografica seguendo a sua volta una personale istintività. Certo, non ci sono le convulsioni neorealiste dei Dardenne, ma le tracce, anzi le macchie di colore e luce, i primi piani e mezzi busti di Elio Germano – Ligabue ingrugnito, caracollante, ingobbito, inferocito, gli sfondi talvolta in campi lunghi lunghissimi che nemmeno John Ford. Vorremmo sommessamente ricordare che già il Ligabue di Salvatore Nocita, sceneggiato davvero da recuperare, andato in onda nel 1978 su Rai1, con il compianto Flavio Bucci più intenso di Germano forse nell’espressività del viso ad interpretare il pittore, ecco, quell’esperimento televisivo lì possedeva già parecchi sgarri ad una banale, qualunque, consequenzialità narrativa. A questi inviati statunitensi in terra europea, gente che si è pappata Paul Thomas Anderson o anche solo le sciagurate sceneggiature e realizzazioni di Charlie Kauffman urlando (sempre) come coyote al capolavoro, dovremmo ricordare che il desiderio autonomo di creazione, il fermento espressivo si rintraccia anche in piccole produzioni europee come “Volevo nascondermi”.
Un film dove la tessitura del racconto è libera perché bianco, senza bordi, confini, limiti è il foglio dove disegnare la propria partitura. La soggettiva del piccolo Toni da sotto il mantello, attraverso un buco nella stoffa, con cui si apre il film non è un vezzo, ma pura necessità descrittiva e poetica. Il ricordo personale doloroso, drammatico del protagonista non può che essere sconnesso, discontinuo, frammentario. Non è la variabile tempo a contare in “Volevo nascondermi”, ma l’omogeneità insita nella marginalità sociale e culturale di Ligabue, quella consapevolezza atemporale della crudeltà altrui che è sì costante infinita nel tempo. Nessuno lo vuole, nessuno lo capisce, tutti lo isolano, lo vogliono provocare, picchiare, sbeffeggiare. L’uomo cresciuto, tornato dalla Svizzera in Italia, nella bassa reggiana, durante il fascismo, poi che entra ed esce dai manicomi, e vive nascosto in riva al fiume come una bestia selvaggia, non è un filo lineare tirato e dritto come tradizione vuole, ma un patchwork istrionico, sussultante (montaggio di Diritti e dell’olmiano Paolo Cottignola) proprio come la totalizzante performance di Germano.
E proprio per questo l’approccio formale impressionista in senso lato – i campi lunghi mozzafiato sul Po e sulla natura circostante – e in senso stretto – i lampi di luce e le linee d’ombra significanti che attraversano lo spazio battuto e vissuto da Ligabue – sembrano la voce naturale di questa opera cupa ma gentile, di questo ritratto rispettoso ed umanizzante dell’artista. Un uomo che prima di dipingere galli, oche, cani, tigri, ghepardi, sente dentro di sé la loro profonda animalità, la introietta, la mima, la percepisce interiormente, trasformandola in pittura. “Siamo tutti animali” grida il protagonista. Ed è a quegli asini, a quelle galline, contrappunto di un’umanità che invece lo rifiuta, che Ligabue riserva senza troppe sdolcinatezze il suo affetto terreno. Diritti attenua ogni possibile misoginia avatiana (le donne padane che in fondo stanno vicine al protagonista) e in compagnia della sceneggiatrice Tania Pedroni immagazzina maggiormente la lezione olmiana naif de Il posto più che quella campagnol-universale de “L’Albero degli zoccoli”. Volevo nascondermi è uscito mercoledì 4 marzo, forte dell’Orso d’oro berlinese ad Elio Germano come miglior attore, ma indebolito dall’apertura di soltanto metà delle sale italiane causa coronavirus. Peccato sacrificarlo così questo film, anche perché mancano all’appello le sale emiliane, lombarde e piemontesi che in un modo o nell’altro tanto hanno dato al regista Diritti, quando era ed a suo modo è rimasta questo sconosciuto, apostrofo garbato e controcorrente del cinema italiano contemporaneo.