di Carmelo Sant’Angelo
Adesso basta! È una vergogna dover barattare la propria vita per un salario e, per giunta, misero. È una strage silenziosa, che suscita l’inutile e morbosa attenzione dei giornalisti che come iene si nutrono di brandelli di vita di giovani vittime, grufolando nei social, e suggendo le lacrime dei parenti.
Negli ultimi 5 anni ci sono stati in media 642mila incidenti annuali e sono decedute sul lavoro 1.072 persone all’anno. Significa che ogni giorno che il buon Dio manda in terra, tre persone uscite da casa per recarsi al lavoro non faranno mai più ritorno. E questi sono solo i numeri ufficiali. Sfuggono dalle statistiche i dati del lavoro sommerso, degli odierni schiavi senza un volto né un nome, ingranaggi arrugginiti e malfermi della catena produttiva. Non è Atropo che, con lucide cesoie, recide il filo della vita del lavoratore. Non è nemmeno la sorte avversa decisa da Lachesi. Sono le leggi sbagliate fatte dal Parlamento italiano e, in particolare, quelle che hanno aumentato la precarietà.
Il lavoro precario è il brodo di coltura degli infortuni sul lavoro. Lavoratori non adeguatamente formati, scarsa sicurezza, ritmi elevati imposti dal cottimo, imprenditori non qualificati sono gli ingredienti di una miscela esplosiva che deflagra puntualmente nelle statistiche dell’Inail. Tra queste leggi una menzione d’onore spetta al Jobs Act ed al “contratto a tutele crescenti” magnificato dalla stampa di regime perché avrebbe aumentato gli occupati a tempo indeterminato.
La realtà è, invece, dipinta a tinte fosche dal rapporto della Fondazione Di Vittorio del 2018. Dal 2015 al 2017, i primi anni della “riforma” renziana, il numero di assunzioni a tempo indeterminato è crollato da 2 milioni ad 1 milione 176 mila (-41,5%); le assunzioni a termine da 3 milioni 463 mila sono passate a 4 milioni 812 mila ( +38,9%); i contratti a termine part-time da 1 milione 248 mila sono saliti a 1 milione 937 mila (+55,2%); i contratti di durata fino a 6 mesi sono passati da meno di 1 milione a più di 1,4 milioni.
È di tutta evidenza che la riforma renziana crea precarietà, mentre risulta utile a dopare le graduatorie del tasso di occupati. Sommando, infatti, il numero degli occupati temporanei e quelli a part-time, complessivamente l’area del “disagio” occupazionale ha superato il record di 4 milioni e 571 mila persone. Il tasso di disoccupazione in Italia a dicembre 2019 era al 9,8%, mentre la disoccupazione giovanile si attestava al 29,8%; un occupato su otto è a rischio povertà: l’11,7%. È uno dei dati più alti nell’Ue (9,6% di media).
Occupazione e salari sono frutto di scellerate politiche del lavoro reiterate da decenni. Il fallimento è spiegato dal confronto con la Germania, che dal 2002 al 2018 ha aumentato il tasso di occupazione dal 72% al 79%, mentre da noi è “balzato” dal 57,4% al 58,1%. La ricetta tedesca è semplice: diminuire il numero delle ore lavorate ed aumentare i salari, perché la produttività aumenta grazie alle nuove tecnologie. Ai nostri lavoratori, invece, si chiede di lavorare di più e per una paga più bassa, sulla base di un erroneo presupposto: che la produttività e la competitività dipendano dal lavoratore anziché dal datore di lavoro. Venti anni di riforme varate su questo presupposto hanno prodotto benefici solo per i datori di lavoro e nessuno per l’economia generale, atteso che non c’è stato alcun rilancio dell’occupazione.
In conclusione, lancio una provocazione a quei sindacati così solerti da schierarsi con Confindustria contro il salario minimo. Obblighiamo i sindacati, per legge, ad istituire con le proprie ingenti risorse, un fondo da cui attingere a favore delle famiglie colpite da una “morte bianca” (come ipocritamente viene chiamata), ogni qual volta essi non riescano a dimostrare, in maniera certa ed opponibile, di avere esercitato l’istituzionale attività di pungolo nei confronti di quel datore di lavoro che si è reso negligente all’obbligo di tutelare i suoi dipendenti. Absit iniuria verbis.