Ancora pioggia, ancora freddo. E tanta montagna. Oggi il Recovery Giro offre spettacolo. C’è infatti il primo arrivo davvero in salita. Al termine di una lunga arrampicata, ben 938 metri di dislivello. Non da grandi danni, ma quel che basta. Sestola, tre giorni fa, è stato solo un aperitivo. Ciononostante, ha mandato in bambola alcuni dei migliori (vedi Almeida, quindici giorni in rosa l’anno scorso), e rifilato la classifica dei favoriti, con Nibali gravato di quasi cinquanta secondi rispetto a Bernal, Evenepoel e Vlasov. La classifica verrà terremotata dicono i girini al via dalle Grotte di Frasassi (il celebre brigante). Più che una premessa, una promessa. Vedremo.
Intanto, questa sesta tappa non è di lunghezza terrificante, come certi tapponi dolomitici. Ma è un assaggio avvelenato: 160 chilometri di severi Appennini marchigiani. Si sale a Pieve Torina, si raggiunge la Forca di Gualdo (1496 metri), si ripiglia fiato sulle ondulazioni dei Castellucci, per varcare la Forca di Presta (1536 metri), indi un’interminabile e rischiosa discesa, 44 chilometri che portano alla bella Ascoli Piceno, scenario di tanti arrivi del Giro, fin dai tempi di Binda e Girardengo. Ma non è con la le memorie di glorie ciclistiche che si vincono le tappe. Ascoli Piceno stavolta è la rampa di lancio. La tappa si decide infatti lungo i 15,7 chilometri e i sedici tornanti sino al Colle di San Giacomo (1090 m.). Agguati. Attacchi. Inseguimenti disperati.
Qualche caduta ricorda che manca Mikel Landa. Verrà operato in Spagna. Non mancano le polemiche sugli arrivi in volata. In un Paese dove non si mettono in sicurezza le autostrade, pensate che lo facciano per le strade degli sprint?
Torniamo alla cronaca di giornata. Come previsto, si forma una fuga di qualità, dopo scaramucce e tirate allo spasimo. Vanno via in otto. Uno è il bravo Bauke Mollema, scudiero di Nibali. Poi l’esperto Dario Cataldo. Il talentuoso svizzero Gino Mader. Jimmy Janssens. Lo sloveno Matej Moharic, 11 vittorie in carnet compresa una tappa al Giro 2018. Giovani interessanti come Guglielmo Simon e Simone Ravanelli. Il francese Geoffrey Bouchard, migliore scalatore alla Vuelta del 2019. Dietro, affonda la maglia rosa Alessandro De Marchi: crisi nera. Colpa di una violenta accelerazione della Ineos, trainata da un sontuoso Luigi Ganna al servizio di capitan Egan Bernal.
Ai piedi della salita finale, la fuga si assottiglia. Restano Cataldo, Mader e Mollema. Perdono terreno, mentre De Marchi annega a 15 minuti di distacco. I migliori ormai sono alle spalle dei tre. Segnalo l’ungherese Attila Valter, 22 anni, maglia bianca (quella del migliore giovane): un lungagnone magro e biondo come le spighe della sua Pannonia, dicono sia un futuro campioncino.
Mader rompe gli indugi, molla i compagni. Gli rosica il beffardo sorpasso subito alla Parigi-Nizza quando stava per tagliare il traguardo e gli è piombato come un falco predatore lo sloveno Primosz Roglic. Ci mette più anima che gambe. Sbarella, ansima, il vento lo fustiga. Si volta indietro, teme un altro sorpasso sul filo di lana. Lo sta cacciando il meglio del bigoncio: Bernal, Evenepoel, Ciccone e Daniel Martin. A duecento metri dall’arrivo, si gira ancora, il disperato Gino. Non li vede. Esulta. Vince. Tira fuori la linguaccia. Diretta all’assente Roglic che l’aveva umiliato. Dedica la tappa a Landa, suo capitano, lo sventurato di Cattolica. I quattro passano a dodici secondi.
Attila è la nuova maglia rosa: “U(n)no in gamba”. La prima volta di un ungherese. Precede di 11” in classifica Evenepoel, di 16” Bernal, di 24” Vlasov. Caruso è settimo, a 39”, Ciccone ottavo, a 41”. Il Giro è pirotecnico. Tanti padroni, nessun padrone?