"La guerra di Nina" è un tuffo in un mondo che il più delle volte non vogliamo vedere. È un pugno nello stomaco nelle coscienze sopite del mondo occidentale. "La guerra di Nina", come le ebbe a dire il capo dei ribelli poco prima del sequestro, "non è la tua guerra, Nina". Ma, in senso deandreiano, non è la guerra di nessuno
“Non è la tua guerra, Nina“. Il capo dei ribelli, Khaled, glielo dice, già vinto, in una stanza del quartiere generale degli insorti, ad Aleppo. Ha appena giurato fedeltà al neonato Stato islamico contro la propria volontà. E lo ha fatto per salvarsi la pelle. Ma tutto questo, Nina, la protagonista, ancora non lo sa. Il giorno dopo verrà rapita su ordine del nuovo emiro locale dell’Isis, Abu Hamza. E, da lì in avanti, capirà ciò che prima di partire per la Siria ignorava: che quella guerra non è la sua guerra.
Imma Vitelli, per anni corrispondente internazionale di Vanity Fair, si è occupata dei più importanti conflitti africani e del Medio Oriente. Col suo primo romanzo, La guerra di Nina, edito da Longanesi (312 pp. 16,9 €), ci porta al centro del mondo, la Siria, la cui guerra civile – divenuta poi guerra mondiale – ha prodotto in dieci anni quasi mezzo milione di vittime e 12 milioni di profughi, con una storia d’amore (e, inevitabilmente, di morte). Si tratta, sulla carta, di fiction, ma gli elementi di “realtà” pervadono il libro con così tanta forza da rendere il racconto in prima persona della protagonista, Nina Venti, una giovane giornalista ambiziosa e che ammette di sé di “sentirsi immortale”, quanto mai vero. Talmente vero da sembrare biografico.
Nina, 28 anni, collabora con una rivista. Ma non è felice. Nella redazione romana presso cui sta facendo il praticantato si sente “un’addetta al plagio […] non eravamo giornalisti ma riciclatori di notizie di cui non sapevamo niente, se non che qualcun altro le aveva scritte”. Così, finito il praticantato, dà le dimissioni e prova a fare quello che i giornali italiani non fanno più (o fanno raramente): andare sul posto, dove accadono le cose, e raccontarle. Si trasferisce così a Beirut, dove incontra un fotografo siriano, Omar, dal passato oscuro. I due si innamorano (d’un amore deandreiano: “lo amavo e lo odiavo”, così lo descrive Nina). Poi, quando scoppia la rivolta siriana, e Bashar al-Assad sembra tremare, lei lo convince a tornare nel cuore della rivoluzione, nella sua città natale, dove non mette piede da 14 anni: Aleppo. Il 13 agosto del 2013 Nina, insieme a Omar, entra illegalmente in Siria. Tre giorni dopo verrà rapita.
La guerra di Nina è un tuffo in un mondo che il più delle volte non vogliamo vedere. È un pugno nello stomaco nelle coscienze sopite del mondo occidentale. La guerra di Nina, come le ebbe a dire il capo dei ribelli poco prima del sequestro, “non è la tua guerra, Nina”. Ma in senso – ancora una volta – deandreiano (si ascolti La guerra di Piero), non è la guerra di nessuno. Non lo è per la protagonista, naturalmente, che dovrà accettare d’esser causa – contro i propri ideali – del pagamento di un riscatto di cinque milioni di euro da parte dello Stato italiano al neonato Califfato: “Quante volte avevo detto che era sbagliato pagare il riscatto perché così si alimentava il racket dei sequestri? Quante volte avevo detto che se fossi stata rapita non avrei mai voluto che il mio governo pagasse il prezzo della mia follia?“; e ancora: “Quanto vale la mia vita […] il costo di un attico in centro a Roma… che vergogna e che disgusto”.
Ma non è nemmeno la guerra di Omar, che ritorna ad Aleppo per fare i conti con un passato che gli ha lasciato una profonda cicatrice sul volto e una, ancora più profonda, nell’anima. Perché lui “non è figlio di una vittima, ma di un assassino“; e scoprirà, sulla sua pelle, che la vergogna di essere figlio di suo padre la potrà espiare soltanto con l’odore, e il frastuono, del tritolo. E non è la guerra nemmeno del capo dei ribelli, Khaled, che ha imbracciato il fucile per combattere i soprusi della dittatura di Damasco e si è trovato, costretto, ad accettare la dittatura dell’Isis. Infine, non è neppure la guerra dell’apparente vincitore della battaglia, il corpacciuto emiro Abu Hamza, che sputa i noccioli d’uva sui piedi dei propri prigionieri. Sì, perché anche lui, alla fine, come lo Stato islamico, cadrà.
E dunque la guerra cruda che ci presenta Vitelli, quella in cui una vecchia, dopo che una bomba è caduta su una moschea sotto cui sono sepolti i propri figli, continuare a dare testate al muro, senza sosta, pur di farla finita e non dover sopportare il dolore della perdita dei propri cari; quella in cui un ragazzino di 13 anni gira con un giubbotto esplosivo col desiderio di farsi saltare in aria per vendicare il padre; quella in cui le donne, se vengono catturate, vengono sistematicamente violentate da gruppi di uomini che le considerano carne da macello; ecco, la guerra che ci presenta Vitelli, in fondo, non è la guerra di nessuno. Perché innocenti sono a stento i morti e i bambini. “Siamo tutti innocenti e colpevoli, anche”, dirà alla fine Nina. Per poi chiedere perdono “di questa follia”.
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