Nel carcere di Alessandria un uomo in esecuzione pena per altro reato è stato accusato di propaganda e istigazione a delinquere in relazione a reati di terrorismo e per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. All’uomo è stato applicato un provvedimento di custodia cautelare dal Tribunale di Torino. Pare che, nel guidare la preghiera, esortasse alla jihad ed esaltasse gli attentati terroristici. Il detenuto, di origini marocchine, svolgeva un ruolo di facilitatore alla preghiera nell’istituto di pena.
Le religioni in carcere non sono tutte uguali. Si possono distinguere vari livelli: la religione cattolica che, a seguito del Concordato, prevede in ogni carcere luoghi di culto e un cappellano assunto formalmente dall’Amministrazione Penitenziaria quale dipendente dell’istituto; le altre religioni che hanno stipulato accordi con lo Stato italiano, per le quali anche il carcere ha un riconoscimento con qualche grado di formalità; ed, infine, quei culti per i quali mancano intese o accordi istituzionali, dove eventuali ministri possono fare ingresso in carcere solo in veste di volontari, come i tanti che offrono assistenza o organizzano attività ricreative per le persone detenute.
I detenuti dichiaratamente musulmani erano circa 8.000 (ma probabilmente di più, in quanto in molti su questo tema si tacciono), pari a un settimo del totale, secondo l’ultima rilevazione effettuata. Ovviamente, ogni rilevazione deve sempre tener conto della libertà di coscienza e della paura a dichiararsi, per le conseguenze in termini di maggiori controlli. Nel 2015 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva stipulato un protocollo d’intesa con l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane), attraverso il quale si prevedeva l’ingresso in carcere di imam riconosciuti e autorizzati dal ministero dell’Interno, portatori di una cultura islamica democratica e pacifica. Si erano contestualmente avviati percorsi di formazione sull’Islam per il personale penitenziario.
L’intuizione del protocollo era senz’altro importante. Si è a lungo discusso di come le carceri europee potessero costituire un terreno di radicalizzazione. Il vero contrasto non può essere che la prevenzione, fondata sul rispetto dei diritti, compresi quelli relativi alle libertà religiose. Tante ricerche promosse dall’Unione Europea, in seguito ai sanguinosi attentati degli scorsi anni, hanno mostrato come la persona detenuta possa tendere alla radicalizzazione violenta quando l’odio verso l’Occidente è indotto dalla percezione di una mancanza di tutela della propria dignità.
Il protocollo d’intesa tra Amministrazione Penitenziaria e Ucoii è parzialmente stato realizzato, anche per quanto riguarda la parte, strategicamente importante, relativa alla formazione del personale. Sono 13 gli imam che oggi entrano in istituto grazie a esso, ma spesso senza continuità e in occasione solamente del Ramadan o di feste religiose specifiche. Altri 30 imam sono autorizzati a prescindere dal protocollo. Numeri bassi, se si pensa che le carceri italiane per adulti e per minori sono circa duecento. Trovandosi senza imam esterni autorizzati, i detenuti di fede islamica si organizzano tra di loro per la preghiera. Non vi è garanzia a questo punto su cosa può essere detto, come forse è accaduto nel carcere di Alessandria, lasciando aperto il rischio della radicalizzazione.
La prevenzione della radicalizzazione in carcere passa per il riconoscimento dei diritti fondamentali dei detenuti. Come indicato dagli organismi internazionali, a partire dall’Onu, è necessario assicurare condizioni materiali di detenzione dignitose, che non alimentino percorsi personali di vittimizzazione. Devono inoltre essere previsti spazi dedicati alla preghiera, testi e rispetto per le ritualità. Per contrastare la radicalizzazione dobbiamo togliere gli argomenti e le giustificazioni che la alimentano.