Mio padre, abruzzese di nascita, partecipò come volontario, a 18 anni, alla Grande Guerra. Dopo la guerra si laureò in legge (i professori erano molto comprensivi con gli studenti reduci) a Milano, dove iniziò la sua professione di avvocato. La sera, come tanti giovani socialisti, andava a casa di Filippo Turati, dove Anna Kuliscioff lo accoglieva chiamandolo “l’avvocatino”, perché era non molto alto e magrissimo. Con mio padre, tanti altri giovani, fra cui Antonio Greppi, che sarà “il suo sindaco” quando, già comandante della Brigata Maiella, Medaglia d’Oro al Valor Militare, tornerà a Milano, nel gennaio del 1946, come prefetto della Liberazione.

Anche per questo precedente, mi commosse – quando, da studente universitario diedi vita al “Circolo Cinematografico Aldo Vergano” – di trovarmi sotto la guida di un gruppo di socialisti già affermati in politica, fra cui Matteo e Giancarlo Matteotti. Dico questo per dire quanto sia stata sempre forte, nella mia formazione politica, l’immagine di Matteotti, protagonista (e martire) del socialismo italiano.

Si deve in gran parte a Riccardo Nencini il fatto che sia sopravvissuto fino ad oggi, nel nostro Parlamento e nel Paese, il più antico partito della sinistra italiana, dilaniata da infinite scissioni, a partire da quella drammatica del 1921, da cui nacque il Pci. E si deve ora a lui un ampio volume su Giacomo Matteotti, dal titolo Solo, che non ha la forma della biografia ma quella del romanzo ed in cui è narrata la vita del più importante personaggio, con Turati, nella storia del socialismo italiano e la sua tragica fine.

In questa recensione non potrò – per ragioni di spazio – soffermarmi sulla vita privata di Matteotti, che pure è di grande interesse perché rivela ai lettori l’aspetto più segreto di un così noto “eroe della politica”. Perciò mi limito a segnalare la profonda tenerezza che emana dalle pagine dedicate ai suoi rapporti con la moglie, Velia Titta – poetessa, sorella del celebre baritono Titta Ruffo – e con i figli Matteo e Giancarlo. Mi soffermerò su alcune parti di Solo che ritengo particolarmente ricche di notizie ed anche di rivelazioni.

Dal libro di Nencini, Matteotti appare come il grande difensore della autonomia socialista. “Io sono un riformista rivoluzionario – dice – non un comunista. Gli italiani devono sapere che i comunisti sono i naturali alleati del fascio, i suoi complici involontari. Se il comunismo non ci fosse, il fascismo lo inventerebbe. La violenza e la dittatura predicate dall’uno divengono il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura dell’altro”. Queste posizioni sono ricambiate duramente da L’Unità, che titola “Le idiote insolenze dell’onorevole Matteotti”.

Ma soprattutto si rivela come il politico più coraggioso e più tenace nel denunciare, in Parlamento e fuori, la violenza del regime fascista (per questa sua impetuosità, veniva chiamato “tempesta”): “1206 casi di violenza, 1323 morti, e ne ho dimenticato più d’uno. Questo è stato il primo anno di dominazione fascista” denuncia in un suo articolo. Ed appare altrettanto chiaro che Matteotti è pienamente consapevole del pericolo mortale che corre sfidando quotidianamente il fascismo: Il Popolo d’Italia non avrebbe potuto essere più chiaro: “Matteotti rischia di trovarsi un giorno o l’altro con la testa rotta, ma proprio rotta”.

Di particolare interesse le pagine in cui Nencini racconta la storia della corruzione fascista e soprattutto la vicenda della tangente della Sinclar Oil, che Matteotti – come noto al Duce – avrebbe denunciato alla Camera nel giorno in cui fu rapito ed ucciso (fra l’altro, il governo fascista l’aveva presentata come una società autonoma, mentre era una affiliata della potentissima Standard Oil). Tangenti a molti fascisti, fra cui Arnaldo Mussolini ed al sottosegretario agli Interni Aldo Finzi per un affare d’oro: monopolio esclusivo per mezzo secolo nella ricerca di oli minerali, gas e idrocarburi, in Sicilia e in Emilia, su 75mila chilometri quadrati. L’accordo con la Sinclair era stato approvato a tamburo battente e con altrettanta dal governo e dal solito vergognoso ”Re Pippetto”.

Altrettanto interessanti le pagine sulle organizzazioni dei fedelissimi di Mussolini – dall’Ovra alla Ceka – dipendenti dal ministero degli Interni ma organizzate come formazioni paramilitari destinate a contrastare con la violenza le opposizioni politiche. Al vertice di tutta la polizia fascista, i dioscuri di Mussolini, Rossi e Marinelli; a capo dei sicari, Amedeo Dumini.

Ed è Dumini l’uomo a cui il Duce affida l’incarico di rapire e uccidere Matteotti, ordine eseguito il 10 giugno: rapito nei pressi della sua casa sul Lungotevere e portato fuori Roma, in campagna. Pagine agghiaccianti nel libro di Nencini, che racconta particolari noti solo a chi si è documentato a fondo sulla vicenda: Matteotti percosso per tutto il tragitto fino alla aperta campagna, dove viene finito con una coltellata al cuore. E poi l’oltraggio finale: gli tolgono i pantaloni e le mutande e gli tagliano il pene, che avvolgono in un fazzoletto. Il corpo di Matteotti viene trovato solo il 16 agosto.

Nel frattempo, la scelta dei partiti democratici di ritirarsi sull’Aventino e il silenzio pavido del Re: la cosa è fatta, ora il fascismo si è liberato del più autorevole dei suoi oppositori e può continuare il suo cammino fino alla tragedia della guerra (e penso che quando si critica il trattamento osceno dedicato alla salma del Duce e della sua Claretta non si debba mai dimenticare il martirio di Matteotti, né le tante altre vittime della violenza fascista: da Amendola a Don Minzoni, dai fratelli Rosselli ai tanti altri coraggiosi oppositori del fascismo).

Per il processo a Dumini e ai suoi complici bisogna attendere il 1926. Si tiene a Chieti, una città piccola e isolata ed una delle più fedeli al fascismo. Non è un processo, è una farsa. La sentenza parla di omicidio preterintenzionale la concausa della debole costituzione fisica della vittima. Condanne lievi per Dumini e i suoi complici: la banda degli assassini di uno dei capi più autorevoli della opposizione viene rimessa in libertà dopo appena due mesi di carcere. E il Duce, in Parlamento, si prende con arroganza la responsabilità dell’orrendo crimine: “Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”

Chiudo con una pagina vergognosa, che fa il paio con quella dei professori universitari che dopo le leggi razziali non si dimisero per la cacciata dalle cattedre dei loro colleghi ebrei. Croce vota la fiducia al governo Mussolini a due settimane dal rapimento di Matteotti; Pirandello scrive una lettera incredibile al Duce (“Se Sua Eccellenza mi stima degno di entrare nel Partito Fascista”, sarò “un umile e obbediente gregario”); Giacomo Puccini non nasconde la sua ammirazione per il Duce; D’Annunzio è più fascista che mai; Malaparte è uno squadrista convinto.

Se questi erano i grandi intellettuali, figuriamoci i fascisti del popolino: “Con la carne di Matteotti ci faremo i salsicciotti” cantano per strada, mentre un piccolo ras di Bologna, ogni anno, andrà a buttare un secchio di merda sul luogo della uccisione del leader socialista. Nemmeno per la salma di Matteotti c’è un moto di pietà: ospitata nella cappella funebre di una famiglia amica, i Trevisan, deve essere, per volontà dei fascisti locali, disseppellita e tumulata in una tomba dismessa: quasi una damnatio memoriae. La moglie Velia confessa ai familiari: “Non avevo rancore da esprimere né vendette da invocare. Volevo solo giustizia. Gli uomini me l’hanno negata. L’avrò dalla storia e da Dio”. E così è stato.

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