I dati parlano chiaro: gli italiani amano il pesce, soprattutto le orate e i branzini. Di tutto il pesce consumato in Italia — 31 kg all’anno pro capite — 1 su 4 appartiene a una di queste due specie, ma solo il 15% è italiano. Da solo il nostro Paese non riesce a tenere testa alla domanda interna e l’unica via resta l’importazione dall’estero: la metà di tutte le orate e i branzini importati in Italia sono infatti di origine greca.

La Grecia è il leader europeo nella produzione di orate e branzini: le sue insenature sono costellate da oltre 300 allevamenti ittici che occupano una superficie marina equivalente a 4.177 campi di calcio. Nel 2019 ne sono state allevate 120.500 tonnellate, contro le 17mila italiane. Peloponneso, Tessaglia ed Egeo sono le principali aree di produzione. Ma in che condizioni vivono i pesci allevati in Grecia che noi importiamo? Pessime. Lo rivela l’ultima indagine di Essere Animali, svolta in collaborazione con We Animals Media, in diversi allevamenti ittici greci. Le orate e i branzini trascorrono fino a due anni in gabbie sovraffollate, sporche, spoglie e senza arricchimenti ambientali.

Vengono nutriti esclusivamente con mangime simile a croccantini e la somministrazione di antibiotici è la norma. Tutto questo causa stress cronico e indebolisce il loro sistema immunitario, motivo per cui, secondo uno studio del 2020, il tasso di mortalità per branzini e orate allevate nel Mediterraneo è del 15 e 20%, come confermato anche dai proprietari delle aziende investigate, e metà di queste dipende dalla diffusione di malattie.

Il momento della macellazione è altrettanto doloroso e brutale: al momento della cattura e dell’abbattimento, orate e branzini vengono prelevati con le reti, dove rimangono schiacciati dal peso degli altri pesci. Ancora vivi, vengono scaricati in vasche con acqua e ghiaccio dove si feriscono nel tentativo di fuggire. Dopo pochi minuti di immersione, i pesci si immobilizzano, ma la loro agonia può arrivare a durare fino a 40 minuti, prima di morire di congelamento e asfissia. L’immersione in acqua e ghiaccio senza stordimento preventivo è una pratica dolorosa e lesiva del benessere animale, come affermano anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (Oie) e la Commissione Europea. Nonostante questo sia risaputo, è un metodo di uccisione molto diffuso negli allevamenti ittici europei.

Anche dal punto di vista ambientale i problemi causati dall’acquacoltura sono innegabili: le gabbie marine, collocate vicino alla costa per abbattere i costi di manutenzione, rilasciano sostanze chimiche, farmaci e rifiuti organici nell’ambiente circostante. Per di più i mangimi dati alle orate e ai branzini contengono per un terzo farina e olio di pesce provenienti da pesca industriale. Questo significa che l’allevamento ittico non può intendersi come un’alternativa allo sfruttamento degli stock ittici selvatici, perché è da essi che dipende.

È giunto il momento di aprire gli occhi sul modo in cui i pesci vengono allevati e sulla sofferenza che devono patire prima di finire sulle tavole degli italiani. Un cambiamento deve investire tutta la società, dai consumatori fino alla grande distribuzione organizzata. Con la diffusione di questa nuova indagine Essere Animali rilancia la campagna #AncheiPesci, per chiedere ai supermercati italiani di adottare una policy aziendale volta a tutelare il benessere di questi animali nelle proprie filiere. Firma anche tu la petizione.

Crediti immagini: Selene Magnolia / We Animals Media

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