di Roberto Iannuzzi*
Per comprendere realmente cosa è accaduto in Palestina, fra Gerusalemme e Gaza, ancora una volta è necessario uno sforzo di approfondimento che vada oltre i titoli fuorvianti della stampa o le false “equivalenze” fra israeliani e palestinesi di cui abbonda la dialettica politica occidentale.
Hamas si è assunto la responsabilità, con il suo lancio di razzi, di aver spostato l’attenzione – e la repressione militare israeliana – su Gaza. Ma non è la Striscia il fulcro di questa ennesima crisi, bensì Gerusalemme, e il quartiere palestinese di Sheikh Jarrah. Con la progressiva espulsione dei palestinesi dalla parte orientale della città, essa diventa l’ultimo teatro del consolidamento di un’occupazione che rende la soluzione dei due Stati (a cui tuttora ricorrono i leader occidentali nelle loro dichiarazioni di prammatica) sempre più anacronistica.
Non c’è alcuna equivalenza in questo conflitto sempre più dimenticato dall’opinione pubblica internazionale, bensì un’abissale asimmetria in termini di potere politico e militare fra le due controparti. Uno Stato fortemente industrializzato, con un controllo capillare sul territorio, contro una popolazione spezzettata dal frazionamento geografico e dalle restrizioni di movimento imposte dall’occupazione militare, sotto una leadership politica divisa e delegittimata. Lanci di pietre contro una polizia altamente addestrata e militarizzata, razzi spesso primitivi contro uno degli eserciti più avanzati al mondo.
Martedì sera, a poco più di un giorno dall’inizio dell’escalation armata, il bilancio era di 3 vittime israeliane contro 30 palestinesi a Gaza (fra cui 10 bambini, oltre a interi palazzi rasi al suolo). Questa è la sproporzione del conflitto. Tale asimmetria è stata alimentata, nel corso degli anni, da quello che avrebbe dovuto essere il principale mediatore di questa contesa, gli Stati Uniti d’America. Washington ha protetto l’espansione degli insediamenti israeliani dalla condanna internazionale facendo ampio uso del proprio potere di veto alle Nazioni Unite, e ha garantito a Israele quel vantaggio tecnologico che le ha permesso di mantenere la propria superiorità militare nella regione.
L’amministrazione Trump ha compiuto i passi più significativi nello screditare il ruolo di mediazione statunitense. Decidendo di non considerare più illegali le colonie in Cisgiordania, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, e di non reputare più Cisgiordania e Gaza come territori occupati, essa si è apertamente schierata con lo Stato ebraico su questioni chiave del processo di pace. Un maggiore senso di sicurezza da parte di Israele nella regione, peraltro, non si è tradotto in una maggiore disponibilità al compromesso. Al contrario, la separazione fra il territorio israeliano a ovest della Linea Verde e i territori occupati della Cisgiordania è divenuta sempre più incerta, con centinaia di migliaia di coloni israeliani che vivono negli insediamenti come se abitassero una comune città israeliana.
Tra il Mediterraneo e il fiume Giordano esiste una sola autorità (quella israeliana), a cui si affianca una limitata – e subordinata – autonomia palestinese. Tale autorità adotta leggi e politiche finalizzate a mantenere il controllo israeliano sulla sfera demografica, politica e territoriale entro questi confini, costringendo i palestinesi in enclave separate, limitandone i movimenti e sottoponendoli a norme fortemente discriminatorie. Al punto che Human Rights Watch (in ritardo rispetto ad altre organizzazioni per i diritti umani come l’israeliana B’Tselem) ha esplicitamente definito quello israeliano come un regime di apartheid in un recente rapporto.
In questo quadro, i palestinesi di Gerusalemme Est, annessa da Israele nel 1967, non sono cittadini, godendo solo di uno status di residenza che può essere revocato in qualsiasi momento, a discrezione del ministero dell’interno israeliano. Più di 14.000 persone si sono viste revocare il loro status di residenza, con la conseguente espulsione dalle loro case. La recente campagna di sfratti nel quartiere di Sheikh Jarrah, che ha contribuito a provocare l’ondata di proteste palestinesi sulla spianata delle moschee, la successiva repressione israeliana e infine il lancio di razzi da parte di Hamas, rientra in questa politica di progressiva giudaizzazione della città.
Tale campagna era stata preceduta in aprile da violenze scatenate da bande di estremisti israeliani, guidate dall’organizzazione suprematista ebraica Lehava, che avevano invaso i quartieri palestinesi all’inizio del mese di Ramadan, sacro ai musulmani, al grido di “morte agli arabi”. Tali manifestazioni di odio sono solo l’aspetto più evidente di un generale spostamento a destra del panorama politico israeliano da diversi anni a questa parte. Una delle conseguenze è che, secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 48% degli ebrei israeliani (con punte del 71% fra gli ortodossi) già nel 2016 sosteneva l’affermazione secondo cui “gli arabi dovrebbero essere espulsi da Israele”.
Intanto, esponenti radicali un tempo ai margini sono ora in posizioni di potere nella Knesset e nel governo. Questa deriva di odio e l’assenza di meccanismi di espressione democratica per i palestinesi fanno sì che la violenza e le rivolte popolari rimangano le uniche valvole di sfogo di un conflitto destinato ad inasprirsi ulteriormente.
*Autore del libro Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo (2017) @riannuzziGPC