Dopo mesi di delegittimazioni trasversali, pressing formidabili da parte del Pd perché si facesse da parte, temporeggiamenti e guerre di logoramento anche all’interno del M5S capitolino, Virginia Raggi ha ottenuto la piena investitura a ricandidarsi a sindaco della capitale da Giuseppe Conte.
Difficile negare che si sia trattato di un percorso contrastato, accidentato ed ostacolato oltre il limite dell’assurdo, a causa in primo luogo dell’opposizione ad personam da parte del Pd che ha confidato per mesi sulla condanna “liberatrice” che non è mai arrivata, come poteva essere prevedibile per chi avesse guardato alla “vicenda nomine” con occhi privi di rancore e pregiudizio. Infatti nella motivazione dei giudici d’appello di Roma viene evidenziato che Raggi non ebbe alcun ruolo nell’abuso d’ufficio ascritto a Raffaele Marra e che fu vittima di un raggiro da parte dei fratelli Marra.
A seguire nei confronti di quella che era l’unica a perseguire dall’inizio, con coerenza e determinazione, l’obiettivo di candidarsi al governo della Capitale, sono iniziate le grandi manovre di dissuasione e dirottamento su altri incarichi, nel tentativo velleitario e improbabile di trovare il candidato giallorosso inesistente.
Intanto Raggi è andata dritta e in modo trasparente per la sua strada, mentre nel Pd è successo di tutto fino ai contorcimenti degli ultimi giorni, affinché Nicola Zingaretti lasciasse la regione anticipatamente per candidarsi sindaco a Roma o magari last minute con la conseguenza di far slittare le Regionali, per evitare di far votare i romani nello stesso giorno per comune e regione. Solo alla fine, molto faticosamente e abbastanza tardivamente, le cose sono ritornate al loro posto e a prevalere è stato “il buon senso politico” ed un minimo rispetto per gli elettori: Giuseppe Conte ha capito che avallare, o comunque non opporsi alla candidatura di Zingaretti come avrebbe voluto Enrico Letta, sarebbe stato assurdo e devastante per il M5S, nonché controproducente in vista di quella alleanza competitiva con il Pd prefigurata a livello nazionale.
Per Virginia Raggi avere al primo turno Nicola Zingaretti come avversario avrebbe significato inasprire notevolmente una campagna elettorale che comunque si preannuncia estremamente calda dopo cinque anni di conflittualità elevatissima in Campidoglio tra il Pd e la sindaca, osteggiata sempre e comunque come “la minaccia” evocata più di una volta da Zingaretti già da segretario, ben prima di immaginarsi come candidato sindaco.
Il Pd dopo una giostra durata oltre un mese è ritornato alla casella di partenza e cioè sul nome dell’ex ministro dell’economia Roberto Gualtieri che ha perso almeno un mese di campagna elettorale a causa dell’ibernazione imposta da Letta; e che dovrà comunque passare dalle primarie di giugno per un rituale abbastanza incomprensibile, visto che a questo punto si presenta nei fatti come candidato unico.
Il risultato incontestabile di tutto questo girotondo montato dal variegato ed ostinato fronte anti-Raggi è stato quello paradossale di rafforzare la sindaca uscente che è riuscita nell’impresa “impossibile” di far convergere finalmente e compattamente sul suo nome tutte le anime del Movimento, attualmente divise da un conflitto che appare insanabile: dai molti big 5S di area governativa che non si sono mai spesi per sostenerla fino a Roberta Lombardi, “nemica storica” che in giunta con Zingaretti insieme a Valentina Corrado ha evidenziato l’insostenibilità politica di “ritrovare il M5S e il Pd uniti in Regione e avversari a Roma con Zingaretti presidente e candidato sindaco”.
Ma Virginia Raggi nel momento più critico dello scontro insensato, degenerato in diffide con tanto di termini perentori, tra M5S e Rousseau è riuscita ad ottenere l’aperto sostegno di Luigi Di Maio accanto a quello, mai venuto meno, di Alessandro Di Battista e di Casaleggio jr. E prima di ottenere il riconoscimento formale da Conte di essere “l’ottimo candidato del M5S” aveva scelto la piattaforma Rousseau oggetto dell’acerrima controversia per il percorso che dovrà portare gli iscritti a prendere parte al “programma partecipato” per la prossima consiliatura.
Ora Virginia Raggi può tentare l’impresa che fino a pochi mesi fa era ritenuta universalmente impossibile, anche dai rarissimi commentatori “non ostili” perché “aveva fatto male”. E cioè restare altri cinque anni in Campidoglio, con buona pace di tutti quelli che non riescono ad accettare la riproposizione della “minaccia” o della “seconda ondata”. Inclusi i conduttori che rischiano crisi isteriche, come è capitato a Corrado Formigli che si è scagliato contro Dino Giarrusso – “l’arbitro vallo a fare te” – dando plasticamente l’immagine di quello che non dovrebbe mai fare un giornalista: con tanto di minaccia di querele, dopo continui tentativi di silenziarlo, solo perché l’europarlamentare del M5S aveva espresso qualche dubbio su un sondaggio che in assoluta controtendenza dà Raggi sotto l’8%.
“Rivendicare le tante cose buone che ha fatto per Roma” come le ha consigliato Alessandro Di Battista ed essere onestamente autocritica, come sta già facendo riguardo l’eccesso di aggressività dimostrato in passato nei confronti del suo predecessore Ignazio Marino; evitare qualsiasi atteggiamento baldanzoso per la grande vittoria politica riportata, sono già un buon inizio. In un’intervista al Mattino ha riconosciuto, dopo aver sperimentato la fatica di fare il sindaco della città più difficile, “di essere stata ingenerosa per la dichiarazione sulle arance e per la vicenda degli scontrini” aggiungendo che “restano diversità di vedute con Marino ma il rispetto c’è ed era giusto esprimerlo”.
Ora, se è indubitabile che Letta rischia grosso se perde Roma e Napoli, il problema riesplode in casa del Pd, dato che Enrico Letta si è impegnato a chiedere ai propri elettori di votare al secondo turno Raggi se fosse lei a prendere un voto in più. Ma nel partito si sono già levate voci, come quella della deputata Patrizia Prestipino, che assicurano con un certo compiacimento che gli elettori del Pd non voteranno mai e poi mai Raggi al ballottaggio.
Allora è molto semplice: o sono loro a vincere con Gualtieri e ad andare al ballottaggio, nonostante il pesante e incomodo Carlo Calenda, oppure gli anti-Raggi avranno la soddisfazione di consegnare la città a Bertolaso o un succedaneo.