Nella giornata di ieri l’esercito israeliano nel corso di una sessione di bombardamenti a tappeto su Gaza ha colpito e raso al suolo la torre Al Jala, un edificio di 13 piani – sessanta uffici, tra redazioni, studi medici, studi di avvocati – nel centro della città della Striscia. Quasi immediatamente è uscita la notizia che il palazzo, individuato dalle Idf come un “rifugio di alcuni terroristi di Hamas e dei loro uffici di intelligence”, agli ultimi piani ospitava diversi giornalisti e le sedi delle emittenti internazionali per cui lavoravano, come Al Mayadeen, Voice of Prisoners, Doha media center, AP e Al Jazeera, tra le poche ad avere reporter di guerra non solo in Israele ma anche nella Striscia, oggetto da tre giorni di una brutale campagna militare.
A nulla è servita la telefonata, ripresa in diretta da Al Jazeera, che il proprietario della torre Al Jala, Jawad Mehdi, ha avuto nei pressi dell’edificio con un ufficiale delle IDF, chiedendogli più tempo per evacuare gli equipaggiamenti. “È la vostra vita, non la mia, prega il Profeta“, dice ad un certo punto l’ufficiale, secondi prima del crollo. Immediato il comunicato di Joel Simon, direttore esecutivo del Committee to Protect Journalist (CPJ): “Questo attacco su un palazzo che Israele sapeva ospitare giornalisti solleva il dubbio che esso prenda deliberatamente di mira i media, così da impedire la copertura delle sofferenze umane provocate a Gaza. Chiediamo al governo israeliano di fornire un resoconto dettagliato e la documentazione necessaria a giustificare questo attacco su una infrastruttura civile, vista la possibile violazione del diritto umanitario internazionale”.
“Siamo scioccati e disgustati dal fatto che Israele abbia deciso di distruggere il palazzo che ospitava la AP e altri media a Gaza“, ha commentato per BusinessInsider Gary Pruitt, Ceo della AP. “Israele è da tempo al corrente di dove si trovi il nostro bureau, così come era al corrente che nel palazzo c’erano dei giornalisti. Ci hanno avvertito che l’edificio sarebbe stato colpito, e per poco non abbiamo perso una dozzina di giornalisti. Si tratta di uno sviluppo davvero inquietante, per via di ciò che è successo il mondo da ora avrà minore possibilità di sapere cosa accade a Gaza”, ha concluso, confermando che ai reporter è stato dato un preavviso di un’ora, senza la possibilità di mettere in salvo le strumentazioni.
“Ogni volta che vedete reporters collegati in diretta da Gaza, normalmente trasmettono dal tetto della torre Al Jala”, commenta la giornalista Halla Mohiedeen. Più duro il direttore del Media network di Al Jazeera, Mostefa Souag, il quale al Guardian ha descritto questo bombardamento come una “palese violazione dei diritti umani e un crimine di guerra”, invitando poi la comunità internazionale a condannare l’attacco e “mettere Israele di fronte alle proprie responsabilità”. Gli ha fatto eco Walid Al Omari, capo del bureau di Al Jazeera a Gerusalemme: “È chiaro che coloro che stanno portando avanti questa guerra non vogliono solo seminare distruzione e morte a Gaza, ma anche silenziare i media che ne sono testimoni, che documentano ciò che davvero sta accadendo. Ma questo è impossibile. È solo uno dei crimini che Israele ha commesso nella Striscia”.
Se è difficile – almeno finché il governo israeliano non fornirà le prove di quel che sostiene – capire se membri di Hamas e la loro intelligence fossero all’interno di un palazzo di questo tipo, la domanda riguarda in realtà anche l’uso sproporzionato della forza: è possibile radere al suolo un palazzo con sessanta uffici, tra i quali quelli delle uniche emittenti internazionali a Gaza, nella convinzione che all’interno si nascondano dei membri di Hamas? È anche necessaria una “armonizzazione” delle versioni israeliane, se è vero che il portavoce delle IDF, Jonathan Conricus, non si è limitato a parlare della presenza di Hamas all’interno della torre, bensì ha esplicitamente negato che la stessa ospitasse sedi di emittenti giornalistiche, affermazione che risulta in ogni caso falsa. Le IDF parlano anche di uffici della Jihad Islamica, altra formazione islamista della Striscia, peraltro “in concorrenza” con Hamas.
Israele – che qualche ora prima della torre al Jala ha colpito un campo profughi uccidendo un paio di famiglie, in totale 10 persone di cui 8 bambini – non è nuova a questo tipo di operazioni su infrastrutture civili o umanitarie, sia a Gaza che altrove. Andando a ritroso, Tel Aviv già nell’estate 2014, durante l’operazione “margine protettivo” su Gaza, colpì in tre diverse sessioni di bombardamenti a tappeto i rifugi dell’Unrwa, uccidendo 44 civili, di cui 10 membri dello staff delle Nazioni Unite.
Nell’operazione “piombo fuso” del 2009, sempre a Gaza, le IDF colpirono, nel popoloso quartiere di Tal Hawa, l’ospedale al Quds, una scuola, un altro media center e il quartier generale delle Nazioni Unite, ferendo tre persone del suo staff, alcune delle quali dichiararono che nei bombardamenti era stato usato il fosforo bianco. In quell’occasione l’allora primo ministro israeliano, Ehud Olmert, dopo aver sostenuto che nel palazzo c’erano alcuni membri di Hamas – affermazione “priva di senso”, secondo il direttore operativo dell’Unrwa, John Ging -, si scusò per le “tristi conseguenze”, aggiungendo che “non sarebbe dovuto accadere niente di simile”.
Non solo a Gaza ma anche in Libano. Nella guerra del 2006, quattro peacekeepers disarmati delle Nazioni Unite (di nazionalità austriaca, cinese, finlandese e canadese) furono uccisi in un raid israeliano mentre si erano rifugiati in un bunker all’interno di in una stazione di osservazione nel sud del Paese, nei pressi di Khiyam, dove gli israeliani avevano “appaltato” all’Esercito del Libano del sud la gestione di un centro di detenzione e tortura, poi assediato e dismesso nel 2000 durante un’operazione di Hezbollah e di un centinaio di volontari locali.
Anche in quel caso le IDF affermarono che nell’area erano presenti postazioni di Hezbollah. Più o meno negli stessi giorni avviene il bombardamento aereo di Qana, nel quale vengono uccisi 56 civili, di cui 32 bambini, ed altri incidenti minori (tra cui quello in cui muore a Sidone un membro dello staff Unrwa, Abdel Saghir, in cui vengono feriti dei soldati della missione Unifil, in un paio di occasioni anche dal fuoco di Hezbollah. Per il villaggio di Qana non si trattava delle prima volta: il 18 aprile 1996, durante l’operazione “Grappoli di rabbia”, le Israeli Defense Forces colpirono con l’artiglieria un compound delle Nazioni Unite, dove si erano rifugiati circa 800 civili. Centosei di essi furono uccisi, e altri 116 feriti, tra cui quattro soldati fijiani dell’Unifil in modo grave.
Pur esprimendo cordoglio e dispiacere per le vittime provocate, le autorità israeliane in tutte queste occasioni rigettarono le accuse e i report di Amnesty International, Human Rights Watch e delle Nazioni Unite – dalle quali non potrebbero essere sanzionati, visto il potere di veto statunitense nel Consiglio di Sicurezza -, definendoli “parziali” e “fuorvianti”.