Più della tappa di oggi, piccole riflessioni sulla tappa di ieri. La nona. Beethoveniana, nel finale grandioso e spettacolare. Ci siamo entusiasmati tutti per l’omerica progressione del colombiano Egan Bernal nell’ultimo chilometro. Ha fatto il vuoto sullo sterrato che portava al traguardo di Campo Felice, superando in tromba, manco fosse una motocicletta, i due superstiti di una lunga fuga, beffati dal vincitore del Tour 2019, risucchiati dai più forti che hanno cercato di limitare i danni.
Il ciclismo dà, il ciclismo toglie.
Bernal ha sfilato la maglia rosa al simpatico Attila Valter, l’unno del pedale. Ha dato “un chiaro segnale” (citazione enfatica dei cronisti) agli avversari. Gli sono venute le lacrime agli occhi perché lui è cresciuto ciclisticamente in Italia. Lo aveva scovato quella vecchia volpe di Gianni Savio, che lo ingaggiò nella squadra Androni di cui era il direttore sportivo: “L’Italia è la mia seconda patria, da cinque anni sognavo di correre il Giro, di indossare la maglia rosa. Dopo il Tour di due anni fa, ho sofferto momenti difficili, sia mentali, sia fisici. Come il mal di schiena che mi ha ultimamente tormentato. Devo questa impresa ai miei compagni: ci credevano più di me”.
Bernal ha 24 anni, ragazzo cresciuto in Piemonte, non dimentica né gli inizi né il lavoro di squadra. La sua grande ossessione è dimostrare che il successo del Tour non è stato casuale. L’altro obiettivo è laurearsi in Giornalismo, appena smetterà di correre.
Ma tornando a ieri, alla fine la mossa di Bernal è stata una scelta opportuna? Ossia, ne è valsa la pena? Frutto di fine tattica od impulso sentimentale? Il suo titanico sforzo ha prodotto un topolino: pochi secondi di vantaggio. Nessuno dei suoi rivali è stato distrutto. Il convalescente Remco Evenepoel, reduce dal terrificante incidente del 15 agosto scorso al Lombardia, è al suo primo impegno agonistico dopo operazioni e sfessanti terapie di riabilitazione. A Campo Felice, infatti, ha buscato dieci piccoli secondi, divenuti venti con l’abbuono: in classifica però è ai mozzi del colombiano, staccato di appena 15 secondi. Anzi, di 14, perché ne ha rubato uno oggi in una volatina a Campello sul Cliturno…
Il sornione russo Aleksandr Anatol’evic Vlasov, mediano tosto della bicicletta, a Campo Felice ha perso sette secondi (come l’abruzzese Giulio Ciccone), in classifica è terzo a -21”, davanti allo stesso Ciccone che accusa un ritardo di 36”. Persino Attila è ancora lì, quinto a 43”, precede il britannico Hugh Carthy (sesto a 44”9). L’esperto e solido Damiano Caruso, 33 anni, gran passista e buon scalatore, è settimo a 45”; Daniel Martin, 34 anni, accasato alla Israel che ha ingaggiato Chris Froome (correrà il Tour), è lì, ottavo a 51”. Simon Yates, altro tenace inglese, vincitore del recente Tour of the Alps alla vigilia di questo Giro (è tra i favoriti), galleggia al nono posto a “55. Decimo, a 1’01” Davide Formolo: alterna lampi di classe a prestazioni incolori.
Insomma, troppi da controllare. Rischi di sciupare preziose energie. Dopo il riposo, il Giro si fa Giro. Incombono salite terribili. Lo Zoncolan (quattordicesima tappa) distribuirà pendenze che saranno sentenze: nei settecento metri finali, un terrificante 27 per cento… Due tappe dopo, frullato di tornanti e strade che puntano al cielo: Fedaia, Pordoi, Giau dove si sono consumate leggende e celebri “cotte”, 5700 metri di dislivello disseminati in 212 chilometri. Finito? Macché. Il giorno successivo, altri 193 chilometri: Passo San Valentino e arrampicata a Sega di Ala, feroce nel nome e nella difficoltà. Dicono sia la salita più dura del Recovery Giro dopo lo Zoncolan.
Dunque, Bernal e soprattutto Dave Brainsford, il manager e stratega della Ineos, la squadra più potente del globo, sono così sicuri di gestire la corsa e tenere a distanza i suoi rivali? Non temono le inevitabili alleanze dei team che non accettano la supremazia dei “neri” Ineos (neri per via del colore della maglia, non fraintendete…)?
La Deceunink-Quick Step, la squadra di Evenepoel, è la più indiziata: se il suo “gioiellino” ventunenne reggerà la sua prima corsa a tappe, allora ne vedremo delle belle. E’ la grande suspense di questo Giro. Due fenomeni che rappresentano non solo il presente, ma il futuro del ciclismo.
Dimenticavo il menu di giornata. decima tappa (breve) per velocisti, dall’Aquila a Foligno, 139 chilometri. Manna per gli orfanelli di Caleb Ewans, ritiratosi due giorni fa. Domina finalmente Peter Sagan, l’idolo delle folle biciclistiche, che pure l’anno scorso aveva vinto alla decima. Sbuca in testa, da una curva a novanta gradi, ennesima trappola per sprinter, e regge la rimonta del tignoso Fernando Gaviria, mollandogli una bici di distacco. Lo slovacco piglia tappa e maglia ciclamino. Per il tre volte campione del mondo, 116esima vittoria in carriera, diciottesima nelle grandi corse a tappe. Ogni suo sprint, vale il biglietto. Fa spettacolo. In corsa. E fuori.
Sagan ha dato una piccola pacca di consolazione a Gaviria che gli ha detto: “Visto che Molano ti ha lanciato bene?”. Molano, infatti, avrebbe dovuto tirare per il suo capitano Gaviria… Terzo Davide Cimolai, già due volte secondo.
Ah, reclamo di Vlasov. Dice che rivuole indietro il secondo perso nell’arrivo rispetto alla maglia rosa Bernal per colpa di una caduta che ha spezzato il plotone negli ultimi tre convulsi chilometri, ossia in zona neutralizzazione. Stille di veleno.