Cosa dire di un così grande artista che viene a mancare, se non che siamo tutti più poveri? Franco Battiato ha avuto il grande merito di riscrivere i codici della popular music in Italia, per ciò che riguarda l’espressione “registica” di un solo cantautore. Ha avuto infatti un approccio nuovo e differente nei confronti di quest’arte, rispetto a quello per esempio verso la musica classica o la poesia.

Parlo della dialettica conosciuto/sorprendente nei suoni, dell’evocatività della canzone, della spola tra icona e poetica per un prodotto di massa che è veicolato dai media, del livello di consapevolezza dei cantautori (soprattutto quelli degli anni Ottanta) rispetto a questo veicolo. Fino agli anni Settanta compresi, sostanzialmente la rivoluzione dei cantautori era da ricercare nel codice, nel mittente ma soprattutto nel messaggio. Alcuni cantautori, come Ivano Fossati, Ivan Graziani o Paolo Conte per esempio, hanno inserito cose nuove nella musica.

Battiato in Italia ha rinnovato invece l’approccio a tutti gli aspetti elencati sopra, nel rapporto tra l’estetica e i suoni di massa. Ha letteralmente rivoltato e modernizzato la canzone italiana, che era rimasta agli anni Settanta e, praticamente, ancora al solo messaggio. In quel periodo, la frivolezza ostentata di alcuni passi dei testi di Battiato cozzava, con risultati meravigliosi, col rigorismo musicale dei suoi primi anni di dischi strumentali ed elettronici, proprio di quei Settanta dell’impegno forzato e del messaggio come totem irrinunciabile, che Battiato ha prima sapientemente dribblato e poi demolito.

Solo se cantati da lui, versi come “a Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata” risultavano credibili e agivano con tutte le sfumature di senso che il suo autore voleva dar loro. E così, brani dal grande rigore contenutistico come “Prospettiva Nevsky” risultavano coerentemente al fianco del “Cuccuruccuccù” nella sua discografia, e in quest’ultima canzone stessa (che peraltro aveva una storia pregna di significato) l’altissimo e l’apparentemente basso erano al proprio posto uno vicino all’altro.

E che dire di quando tutta l’autorevolezza creata da questa capacità formale veniva “spesa” per canzoni crude, senza fronzoli, dirette, tonanti e cristalline come “Povera patria”? Un brano perfetto, liberatorio, che riscopre il gusto del rigore morale delle persone per bene, l’umanità sensibile da rivendicare in un presente inaccettabile.

Mancherà, Franco Battiato. Ma tutta la portata geniale delle sue canzoni resterà intatta, a dimostrare che, quando si è in grado di padroneggiare codici e linguaggi, si diventa preziosi per interpretare il proprio tempo e l’immaginario delle persone, per cercare di orientarci meglio anche nelle notti più buie.

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