Il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, teme e reprime le manifestazioni interne pro-Palestina per non urtare Israele, ‘scomodo’ vicino diventato ormai uno Stato amico. Solo così si possono spiegare gli episodi, per certi versi inquietanti, avvenuti lo scorso fine settimana al Cairo. Prima una nota giornalista e blogger, Nour al-Huda Zaki, fermata in piazza Tahrir dopo che, assieme a un amico, aveva mostrato una bandiera palestinese. La Zaki e il suo amico, nel giro di due minuti dalla spontanea manifestazione solidale, sono stati circondati da funzionari del servizio di sicurezza interno in borghese che li hanno prelevati a forza e portati all’interno di un edificio nelle vicinanze della centralissima piazza della capitale. Lì, stando a quanto lei stessa ha denunciato successivamente sul suo blog, tenuti praticamente in ostaggio per alcune ore, sono stati interrogati.

Gli agenti della Nsa (National Security Agency) hanno aggredito verbalmente la giornalista intimandole di spiegare la sua ispirazione politica e ideologica e il motivo per cui stava sventolando una bandiera palestinese senza alcuna autorizzazione. In altri tempi tutto ciò sarebbe stato normale, oggi è una colpa e rischia di finire male. Lo sa meglio Omar Moussa, un giovane egiziano, come la Zaki fermato venerdì sera, sempre in piazza Tahrir, dopo aver sventolato il vessillo palestinese all’uscita dalla preghiera del Venerdì alla Moschea Omar Makram. Gli agenti della sicurezza interna non lo hanno semplicemente ‘interrogato’ sulle sue tendenze politiche: lo hanno prelevato e fatto sparire. Da allora di lui si sa poco, soltanto di un provvedimento emesso dalla procura egiziana, ma senza conoscere l’addebito e soprattutto senza essere a conoscenza di dove si trovi: “Il suo telefono risulta spento da venerdì sera e ancora non abbiamo alcuna notizia certa su Omar, dove si trovi, se ci sia un addebito ufficiale nei suoi confronti”, ha detto il legale del giovane.

Forse l’Nsa non lo ha fermato solo per quella bandiera sventolata. Moussa, infatti, era già finito nel mirino del regime insediatosi nel 2013 e lo stesso anno, durante una manifestazione sul ponte del Nilo, tra Tahrir e Opera, era stato ferito alla testa da un colpo d’arma da fuoco. Per fortuna si era salvato, ma da allora convive con una paralisi del lato destro del corpo.

La polizia segreta di al-Sisi interrompe sul nascere manifestazioni a favore dei palestinesi, mentre a nord-est l’Egitto mostra tutta la solidarietà alla popolazione martoriata, ferita e in fuga dalla Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. Il governo egiziano l’ha riaperto in anticipo di un giorno rispetto alla fine delle celebrazioni dell’Eid-al-Fitr accogliendo i feriti palestinesi trasportati e curati in alcuni ospedali del Sinai egiziano, in particolare ad al-Arish, principale centro della regione. La solidarietà, tuttavia, appartiene soprattutto al personale e ai volontari della Mezzaluna Rossa, ai circa 1.800 medici che si sono detti pronti (qualcuno lo ha già fatto) a prestare il loro aiuto nei centri sanitari di riferimento e addirittura ad entrare a Gaza per curare le persone sul campo: “Abbiamo aperto le registrazioni per raccogliere le adesioni volontarie dei nostri colleghi in base alle loro specializzazioni, dando le priorità a neurochirurghi, chirurghi vascolari, toracici e specialisti di terapia intensiva”, ha confermato Osama Abdel Hay, segretario generale del sindacato dei medici egiziani.

Una solidale corsa contro il tempo fatta di convogli di aiuti umanitari, tra cibo, medicine, carburante e sacche di sangue arrivato dalle donazioni spontanee del popolo egiziano. Ma allora perché al-Sisi dimostra, ancora una volta, la sua amicizia, se non devozione, nei confronti dello Stato di Israele, nonostante l’eccessiva prova di forza contro la popolazione civile, lasciando al presidente turco Recep Tayyip Erdogan il ruolo della fronda anti-Netanyahu? Le risposte non mancano e alcune, molto in voga nella società egiziana contemporanea, raccontano scenari da spy-story che in realtà, a un’attenta analisi, non appaiono così assurdi.

I rapporti tra Israele ed Egitto sono parecchio cambiati dai tempi della guerra dello Yom Kippur e dagli accordi di pace di Camp David, mediati dall’allora presidente statunitense Jimmy Carter, tra Anwar al-Sadat e Menachem Begin. Dal 1978 i due Paesi hanno convissuto in pace e nel tempo l’Egitto, da leader del mondo arabo, si è fatto sempre di più garante della salvaguardia del Paese confinante. Con al-Sisi questa particolare attenzione è diventata qualcosa di più: “Lei non capisce perché il nostro presidente sia il miglior amico di Netanyahu quando dovrebbe essere vicino alle istanze palestinesi e ai sentimenti arabi? – chiede a Ilfattoquotidiano.it un analista egiziano che preferisce mantenere l’anonimato – Glielo spiego io. Abdel Fattah al-Sisi è stato capace di fare qualcosa in cui nessun leader è riuscito, ossia cancellare l’identità del nostro Paese all’interno della questione palestinese. Poi c’è una seconda parte della storia, più recente e reale, ossia l’intervento nel Sinai egiziano, quello conquistato dopo il conflitto israelo-egiziano del ’73. Al-Sisi ha distrutto l’area della penisola attorno al confine con Israele, raso al suolo case, reso inservibili terreni e costretto un’intera popolazione ad andarsene, tra deportazioni e omicidi. Tutto per il bene di Israele, come la vendita del nostro gas a prezzi bassi e la cessione dei diritti dell’acqua del Nilo”. A suffragare gli abusi nel Sinai ci sono le denunce degli abitanti di quella regione diffuse dalle organizzazioni a tutela dei diritti umani. Insomma, la vicenda del Sinai non è campata per aria, ma quanto mai realistica. Se silenzio c’è lo si deve solo alla cappa messa dal regime per coprire la persecuzione dei civili con la scusa della lotta al terrorismo e ad alcune cellule legate ad al-Qaeda prima e a Daesh poi. A nessun mezzo di informazione, ufficiale e non, è consentito di entrare nell’area del Sinai egiziano per servizi e reportage. Le notizie vengono pubblicate in base ai bollettini diffusi dalle forze armate.

Esiste un’altra prova che dimostra la volontà di al-Sisi di stroncare qualsiasi voce in dissenso rispetto ad Israele. Da oltre due anni il regime tiene in carcere a Tora, senza processo, Ramy Shaat e Mohamed al-Masry, coordinatori del Bds Movement per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni verso Israele. Il primo, palestinese di origine, ne è stato anche il fondatore. Da tempo è partita una campagna per la sua scarcerazione, promossa dalla moglie di Shaat, Celine Lebrun (intervistata nel marzo scorso dal Fatto), cittadina francese espulsa dall’Egitto dopo l’arresto avvenuto nel 2019.

C’è poi il capitolo delle presunte radici giudaiche del presidente egiziano. Tempo fa alcuni media avevano suscitato vivo interesse pubblicando dettagli sulle origini di Abdel Fattah al-Sisi, in parte legate al popolo ebraico. Il presidente egiziano non ha mai smentito ufficialmente, limitandosi ad arrestare alcuni giornalisti e ad oscurare i siti coinvolti. Addirittura sono circolate teorie e ricostruzioni secondo cui al-Sisi sarebbe un agente dei servizi inviato da Tel Aviv in Egitto parecchi anni fa. Nulla di tutto ciò è mai stato confermato, ma le voci alimentano la narrazione in questi primi otto anni dal golpe orchestrato dallo stesso al-Sisi contro l’allora presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani.

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