Ci sono delle emozioni indimenticabili che permangono uguali a loro stesse ogni volta che si spinge il tasto giusto per rievocarle. Primi anni Ottanta, gita di terza media, l’unica gita di classe della mia vita. In pullman, destinazione Sicilia. Aria di libertà senza quegli orribili grembiuli neri che portavamo a scuola, qualche maschietto più irriverente e meno ubbidiente delle ragazzine, e su tutto, durante le ore del viaggio, andata, ritorno e numerosi e vari spostamenti, un’unica colonna sonora e un unico album, consumando, in una magnifica ossessiva ripetitività, la musicassetta che lo conteneva: La Voce del Padrone.
Immenso, splendido, immortale album di canzoni pop in cima alle classifiche, scritto da un immenso, immortale coltissimo autore contemporaneo che si è spento lasciando davvero un grande vuoto intellettuale e culturale: Franco Battiato.
Quella manciata di canzoni, i cui testi conosco ancora adesso a memoria (perché quello che impari in quegli anni non lo scordi più a vita) tra gesuiti euclidei, bonzi, imperatore e dinastia dei Ming, mi ha aperto un mondo. Cantava e ci faceva cantare a squarciagola “Cuccurucucù paloma” (di cui ignoravo richiami e citazioni) o “Cerco un centro di gravità permanente”, muovendosi nel video con buffi passi di danza durante il ritornello, antesignano della moda di creare semplici movenze da associare a brani tormentone.
Sulla scia di quel grande entusiasmo acquistai il vinile a 33 giri L’Arca di Noè, album diverso dall’altro tanto amato, e lì mi persi definitivamente tra quei testi e i loro significati. Non mi stupisce che si cantino parole di cui non si capisce esattamente il significato o frasi di cui non si coglie il senso, accade ancora per la maggior parte dei testi stranieri, ma in quelli italiani più raramente. Tranne, appunto, quando ci si accostava alle canzoni di Franco Battiato.
C’è stato un momento, credo negli anni Novanta, in cui, un’estate in spiaggia, io e un caro amico avevamo cominciato a fare un gioco che ci divertiva un sacco. Cantilenavamo tutto quello che vedevamo o che ci capitava sul momento, mischiando cose vere con parole astruse e frasi senza senso, sulle melodie di canzoni di Battiato, tipo “Up Patriots to Arms” o altre. Questo spensierato e apparentemente sciocco esperimento rivela in realtà che le sue ricercate e coltissime invenzioni nei testi avevano colto nel segno. Significati ermetici hanno caratterizzato i suoi brani, eppure non gli hanno impedito di raggiungere le vette delle classifiche, quando le sue sapienti mani orchestravano melodie cantabili e orecchiabili con citazioni spesso incomprensibili ai più, ricercando per ogni sequenza di note le parole che dal punto di vista sonoro fossero le più giuste per esse, oltre il loro significato. Al riguardo aveva dichiarato che nei suoi testi dunque, poteva voler dire niente oppure tutto.
Gli esotismi soprattutto orientali, il misticismo, i riferimenti letterari, gli scanzonati giochi linguistici, le frasi prive di un nesso causale tra loro lo hanno reso unico, accompagnati da una contaminazione musicale che niente ha tralasciato, tra sperimentalismi elettronici, musica contemporanea, strumentale e orchestrale, pop, colta e d’autore, spaziandovi nel corso della sua produzione con approfondita abilità e con la capacità di risultare incisivo, per la nicchia come per il grande pubblico.
Il percorso di Battiato ha raggiunto grande successo anche attraverso i progetti sviluppati con il violinista, compositore e amico Giusto Pio, per le splendide voci di Milva, Giuni Russo e Alice. Ancora oggi, se mi capita di ascoltare “Il vento caldo dell’estate” di Alice, riprovo il piacere che provavo a essere investita dal vento torrido del sud sulla mano che tiravo fuori dal finestrino al ritorno dal mare.
Come spesso accade per un artista che si conosce a un certo punto del suo percorso artistico, ho scoperto solo successivamente i suoi trascorsi di suono progressivo, minimalista e dell’avanguardia contemporanea, ignorando ad esempio che la bella sigla di apertura del Tg2 dossier altro non fosse che “Propiedad prohibida”, tratta dall’album Clic del ‘74, dedicato al musicista e amico Karlheinz Stockhausen.
Non ci sono parole per “La cura”, una delle canzoni più commoventi che abbia mai ascoltato. E non trascuro la delicatezza che la sua dolce voce ci ha regalato nella trilogia (che inizialmente pare non dovesse essere tale) Fleurs, raccolta di cover, tributo alla più bella musica d’autore italiana e francese, arricchita da brani di Battiato stesso e da alcuni inediti firmati con Manlio Sgalambro.
Rimane il rimpianto di non aver mai assistito a un suo concerto dal vivo. Nei confronti di una personalità artistica così grande, in grado di spaziare con così raffinata intelligenza tra filosofia, letteratura, poesia, teatro, storia, religione, politica e pittura, mi sono sentita così piccola che quando l’ho incontrato al Medimex di Bari nel 2011 mentre si concedeva con garbo a chi gli chiedeva una fotografia, non ho avuto nemmeno il coraggio di avvicinarlo e di chiedergliela insieme, limitandomi a rubargli uno scatto mentre sorrideva a chissà chi.