“A me interessa solo quello che sono oggi”. Così, sintetico e spiazzante come sempre, sugli anni delle sue sperimentazioni giovanili mi rispondeva il Maestro Franco Battiato, implicitamente alludendo al concetto ispiratore della sua intera esistenza, artistica e personale: l’evoluzione. Non quella meccanica, darwiniana, propria delle specie animali (“In quest’epoca di scarsa intelligenza ed alta involuzione qualche scemo crede ancora che veniamo dalle scimmie”, recitava nel brano La musica è stanca), bensì una “propria evoluzione, sganciata dalle regole comuni, da questa falsa personalità”, come cantava nel brano Segnali di vita, appartenente a un album, La voce del padrone, che proprio quest’anno compie i suoi primi 40 anni di vita: “Gli animali, caro Fabrizio, sono esseri umani che si sono ritrovati a nascere nei regni inferiori”, ed è così, seguendo gli insegnamenti tibetani, che Battiato, in linea coi monaci buddhisti e con tutti i mistici di ogni tempo e luogo, riteneva imprescindibile purificarsi dalle scorie delle emozioni negative, ricongiungersi con la propria essenza, cambiare, parafrasando uno dei suoi più grandi classici, E ti vengo a cercare, l’oggetto dei suoi desideri, non accontentarsi di piccole gioie quotidiane, fare come un eremita che rinuncia a sé; emanciparsi dall’incubo delle passioni, cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male, essere un’immagine divina di questa realtà.
Franco Battiato ha portato nella canzone il misticismo, la spiritualità, l’idea di un alto, di una linea verticale che, opponendosi alla sola orizzontalità della vita terrena, ti spinge, come nel brano Inneres auge, “verso lo spirito”. Lo ha fatto fin dai primissimi anni Settanta con dischi sperimentali come Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries e Clic, e ha continuato a farlo, finalmente rivolgendosi al grande pubblico, a partire dai dischi del periodo pop: L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone sono i primi tre album dei suoi fantastici anni ‘80, quelli che hanno ridisegnato gusti, tendenze e stili della popular music italiana. Album di una qualità inarrivabile, capaci di rivolgersi a tutti pur trattando, con liriche spiazzanti e del tutto inedite nel panorama musicale internazionale, temi prima d’allora impensabili se associati alla musica di consumo, alla musica, come lo stesso Battiato amava definirla, di “comunicazione”. Perché, dopo avervi temporaneamente aderito nella seconda metà degli anni Settanta, non ne poteva più dell’autoreferenzialità e della snobberia della musica contemporanea, delle neoavanguardie colte del secondo Novecento: “La musica di consumo – come mi disse qualche anno addietro -, a volte è infelice e indecente, ma quando riesce magnificamente descrive i sentimenti umani”. Un’artista incapace di criticare senza al tempo stesso offrire soluzioni, come in quella Inneres auge, censurata da quasi tutte le emittenti radiofoniche, nella quale, subito dopo aver scagliato la sua terribile invettiva contro le “cene galanti” dell’allora premier Berlusconi, indicava una via di fuga verso la salvezza, verso la consapevolezza di sé: “Quando ritorno in me, sulla mia via, a leggere e studiare, ascoltando i grandi del passato, mi basta una sonata di Corelli perché mi meravigli del creato”. Un artista incredibilmente coerente, un raro caso di profonda e imprescindibile onestà intellettuale, animato dalla più intima necessità di migliorarsi continuamente, di superare i suoi stessi limiti e così trascendere la propria condizione: un musicista che senza parolacce, senza mai alzare i toni, senza offendere o denigrare ha saputo parlare alla sfera più intima di milioni di persone, indicando dieci, cento, mille vie di fuga “in diagonale (…) per accelerare le calde influenze del sole”, come nel brano Running against the grain. Un uomo che ha trovato il suo centro di gravità permanente nell’ascolto di sé, del mondo, del silenzio. Non resta che ringraziarlo dal più profondo dei nostri cuori: grazie Maestro, e che il Bardo ti sia lieve.