Sul ponte sventola bandiera bianca. Franco (Francesco) Battiato è morto nella sua residenza siciliana di Milo. Aveva 76 anni. Il “maestro”, autore di capolavori come La Cura, L’era del cinghiale bianco, Centro di gravità permanente, era malato da tempo. Dal pop commerciale al rock progressive, dall’elettronica all’opera lirica. Battiato è stato un unicum musicale, linguistico, filosofico della musica contemporanea, letteralmente a livello internazionale. Nei primi anni ottanta quando si affermò commercialmente, uomo gentile, colto, vagamente defilato, autentico, già si intravedeva l’aura del musicista “sperimentale”, con relativo aggrottare di ciglia delle cosiddette masse. Pubblico folto e diffuso che poi ne è diventato in notevole quantità suo ascoltatore comune, diretto, affiatato. Ecco allora Battiato, proprio mentre dà in stampa le trilogia di Fleurs (fine novanta, inizio duemila), punto di riferimento, adorazione musicofila, di una massa critica diffusa e ramificata in ogni angolo di Italia e in ogni gradino differenziato di classe sociale. Difficile ingabbiare Battiato in una corrente culturale, in una dimensione del discorso musicale, perché l’autore catanese se n’era come formata una tutta sua, inequivocabile, irriducibile, peculiare. Quando ti aspettavi un ritornello risolutivo ecco ancora una strofa, quando ti sembrava che arrivasse l’accordo più scontato ne arrivava uno inatteso, figuriamoci per gli arrangiamenti: forse il vero cavallo di battaglia, spiazzante, fluido, totalizzante del nostro. Essere artefici del proprio tempo e della propria musica. Battiato andrebbe sistemato in questa casella qui, semmai, seduto su quel nulla bianco che ne sorregge misteriosamente le sorti artistiche e il peso corporeo umano, fisico, nella copertina dell’album de La voce del padrone (1981), peraltro primo album italiano a vendere oltre un milione di copie. Brani e ritmi che fanno intravedere l’uso disinvolto della strumentazione elettronica in un tessuto pop, da ascoltare con il walkman come nelle discoteche. Non andiamo comunque troppo in là per ravvisare l’altro incredibile tratto artistico di Battiato: i testi. O meglio, quella particolare alchimia tra suggestioni linguistiche, echi dell’anima, sussurri del destino differenti. Mettiamole in ordine: le ipnotiche allusioni di Centro di gravità permanente, i versi viaggi astronomici e temporali di Monti lontanissimi, la ricerca terragna arabo sicula di Fisignomica, la complessità imperscrutabile elevata a potenza dell’evo di tutti gli album elaborato con il filosofo Manlio Sgalambro. La cura, che è brano letteralmente adorato come ci si inginocchia di fronte al fluire di una preghiera, arriva da quell’ultimo periodo, lungo dilatato, del duo Battiato/Sgalambro. Parliamo del cult dell’opera battiatiana della svolta poetica e industriale (Battiato se ne va dalla Emi e produce con Polygram). “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via (…) Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza”, dice il testo della canzone, vero e proprio balsamo spirituale per gli ascoltatori di Battiato. Una ulteriore pagina da voltare, una sorta di passo ulteriore verso l’ascesi, l’era della ricerca spirituale più che musicale, un percorso di emancipazione mistica personale, quasi monacale. Battiato che a quel punto incontra anche il cinema (il fantasma, il simulacro del cinema del Novecento) e pure il regista franco-cileno Alejandro Jodorowsky (La Montagna sacra, El Topo) a cui fa interpretare Beethoven nel suo secondo film, Musikanten (2005). Titolo bersagliato dalla critica e per nulla filato dal pubblico, mentre l’esordio nel 2003, Perdutoamor, già formalmente piuttosto complesso, possedeva comunque ancora con una trama abbastanza lineare e una commerciabilità più tradizionale (del successivo Niente è come sembra nulla diciamo se non che andrebbe rivisto oggi alla luce di pandemia e affini). Anche se forse è Nanni Moretti in Palombella Rossa a rendere sincero omaggio al Battiato già mistico degli anni novanta, ma ancora dentro alla composizione degli ottanta, con un improvviso canto durante una tribuna politica dove il protagonista intona E ti vengo a cercare, altro intramontabile brano, forse tra i più intensi canti sull’amore e sulla passione, sottovalutato dai più. In mezzo a tutta quella produzione live che all’improvviso Battiato rende quasi show teatrale, produzione che si moltiplica esponenzialmente, gravida di sold out, appuntamenti costanti con quel pubblico che lo adora, lo assedia, lo venera, come un guru che buca le ovvietà musicali e culturali del contemporaneo, c’è tutta la storia del rapporto del cantautore siciliano con il pubblico. Non tanti anni fa in un’intervista disse, riferendosi a Lucio Dalla. “Il mio amico Dalla, certo. “Io inseguo il pubblico, Franco, Tu ti fai inseguire”. Sembra una cazzata, ma è vero. Io dei gusti dei fan me ne frego, tutti lo sanno. Non ho mai fatto una capatina su Facebook. Non esiste. Se lo possono scordare”. Poi, forse alcuni scorderanno un altro fatto storico inoppugnabile. Quello che ti fa esclamare, “ma Battiato si poteva permettere di dire queste cose”. Nel 1981 un suo brano vince Sanremo. Non dimentichiamolo mai. Proprio nel biennio 1980-82 Battiato è sulla cresta dell’onda. Avvolto in quei montoni e giacconi dalle spalle larghe tipici del periodo, abbraccia l’amica Alice e crea un sodalizio artistico di rara maestria. Alice vince Sanremo con Per Elisa, un brano tonante, irruento, graffiante, che narra di una donna gelosa e imbestialita contro l’uomo che ha scelto un’altra (“e poi, non è nemmeno bella”). Un brano sui generis di cui guarda caso Battiato scrive assieme a Giusto Pio e alla stessa Alice, sia musica che testo. La classica iniettata nel pop sanremese, la parole che non rispettano i canoni classici dell’attesa. Battiato è già tutto lì dentro, pronto prima o poi per allargarsi, affermarsi, diventare icona assoluta, inimitabile della musica tutta. Prima che morte infine ce ne separi.
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