Quando dici le coincidenze: sto preparando la voce per wikiradio di Rai3 sul processo Pierobon, pietra miliare, a inizio anni 70, per il varo della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, e mi imbatto nella denuncia per vilipendio della religione che il settimanale l’Espresso dovette fronteggiare per la cruda copertina del 1975. Si trattava dell’immagine di una donna incinta, nuda e inchiodata a una croce, titolo a corredo Aborto, una tragedia italiana. Messaggio forte e chiaro per ricordare che erano milioni le donne in Italia costrette ad abortire clandestinamente, con enormi rischi di setticemia, emorragie, sterilità e morte.
Impossibile non fare l’accostamento con la recente copertina dello stesso settimanale, annunciata così: “Un pancione, una vita che nasce, un bambino che arriva. E poco importa che la persona incinta disegnata da Fumettibrutti per la copertina del nuovo numero dell’Espresso abbia barba e baffi: “La diversità è ricchezza”, è il titolo, scritto a pennarello su quella pancia”.
Per dare ancora più rilievo alla scelta iconografica lo strillo di copertina mette in connessione la ossimorica maternità maschile con i diritti sul lavoro: “Il servizio di copertina, si legge al sito dell’Espresso, è un lungo focus sulle battaglie in corso per i diritti civili: perché la legge Zan e la lotta per la tutela del lavoro sono due facce della stessa medaglia”.
Che la diversità sia una ricchezza è innegabile: è stata, lo ricordo, la netta indicazione del femminismo sin dagli albori per mettere in crisi la cultura patriarcale. Si trattava di rompere il granitico maschile universale che ingloba (va) e cancella (va) il femminile del mondo, dal linguaggio alla legge, dalla rappresentanza politica passando per il simbolico, e dire con chiarezza che la primaria differenza con quale riscrivere la narrazione umana è quella sessuale.
Ma cosa c’entra la diversità con l’anacronistica, e palesemente falsa, rappresentazione del disegno di copertina, l’annuncio di maternità attraverso ‘una persona incinta con barba e baffi’? Non si tratta di una inchiesta esclusiva dell’Espresso che svela l’inganno secolare nel quale le donne sono cresciute come “il sesso che invidia il pene” e che, quindi, racconta che sono gli uomini (da sempre) a provare gelosia per l’utero e la peculiare capacità generativa femminile. Quindi quale è il messaggio della copertina?
Sarebbe interessante saperlo, ma una cosa è certa: il settimanale connette il tema un po’ traballante della ‘maternità maschile’ con quello, assai più solido, dei diritti del lavoro (e, coerentemente, su questo argomento, si intervista un uomo).
Nel frattempo segnalo una vicenda che ha molti punti di contatto con l’ingannevole copertina, e il suo mistificante allineamento con la deriva liquida del pensiero queer, che si intesta, guarda un po’, il grembo materno senza problemi, evocando quel ‘nulla è inconcepibile’ che fu lo slogan della commedia leggera Junior, dove il ben poco femminile Arnold Schwarzenegger resta incinta.
Dal 2017 due attivisti transessuali decidono di raccontare al mondo il loro incontro, il percorso di transizione, il desiderio di famiglia: inizia così la narrazione social della The Chaplow Family. Trystan e Biff, sono una donna trans e uomo di Portland, in Oregon: prima adottano Hailey and Riley, poi la donna della coppia sospende i farmaci per la transizione e resta incinta nel 2018. La gravidanza viene documentata con regolarità sui canali facebook, instagram e youtube, come fanno ormai milioni di coppie, più o meno vip: in questo caso però, nonostante l’evidenza della realtà, i due cancellano la donna e la sua maternità, e parlano solamente di loro come di due uomini: two men made a baby, è la scritta maiuscola che campeggia nella campagna social, così come we are two dads è la frase che annuncia il parto. Nel filmato, girato poco dopo la nascita di Leo, il padre afferma: “E la prossima volta che qualcuno vi dice che un uomo non può partorire mostrate questo video”. E la madre sorride, dal letto dell’ospedale, confermando: “Perché io l’ho fatto!”
Non saprei da cosa cominciare per esprimere sgomento: se evidenziare la protervia mistificatoria nel negare l’evidenza e quindi la rimozione del corpo femminile da parte di chi ha appena partorito; il delirio di onnipotenza condiviso da Trystan e Biff che, in adesione alla nuova religione dell’autopercezione, falsificano i fatti annullando il corpo femminile che ha generato. Se si presta attenzione ai materiali prodotti dalla coppia, che si propone come agenzia formativa per le scuole nella narrazione di cosa sia una vera famiglia amorevole, non sfugge l’ossessiva puntualizzazione sul fatto che sono due uomini, due padri. E basta. Un manifesto mistificante dell’eliminazione delle donne, del femminile del mondo, nel nome della perfezione trans, che finalmente è autogenerativa, in un delirio misogino: il claim della loro campagna è infatti The trans revolution. Una volontà così ostinatamente rimottiva della metà del mondo (chissà cosa ne pensano le madri di Tristan e Biff) che appare molto inquietante come rivoluzione, e assai lontana dal poter essere considerata una buona strada da percorrere per celebrare la diversità, visto che ne cancella l’origine.