Nei primi vent’anni del millennio, i paesi avanzati hanno esternalizzato gran parte della produzione industriale. Una garanzia di buoni profitti, assieme a una opportunità per i paesi poveri; con qualche vittima, in entrambe le geografie.

Le aziende hanno esternalizzato perché il sarto bengalese cuce per meno di due dollari al giorno. Lo hanno fatto dove le norme ambientali possono essere aggirate, quelle sanitarie e di sicurezza del lavoro non vanno rispettate alla lettera. E le garanzie sindacali sono ridotte o assenti. La gente dei paesi beneficiati dalle esternalizzazioni ha messo assieme la colazione con la cena. Almeno sotto il profilo del benessere monetario e alimentare, queste popolazioni hanno fatto un salto enorme. Ma hanno pagato un prezzo sociale non irrilevante, subendo danni ambientali forse irreversibili che, a medio termine, si trasferiranno a tutto il pianeta.

Dal 1989, il Pil pro capite globale (misurato a parità di potere d’acquisto) è quasi raddoppiato mentre la quota delle persone in condizioni di povertà è scesa da più di un terzo a meno di un nono, nonostante la popolazione sia cresciuta da 5 a quasi 8 miliardi. In un pianeta a forte crescita demografica, milioni di cittadini hanno evitato la fame. E, in questi paesi, è sorta una classe media prima inesistente, ma così debole da non poter modificare, né mettere in discussione le politiche globali.

La inarrestabile diffusione della pandemia è stata favorita dalla globalizzazione. Durante l’epidemia spagnola di cent’anni fa, la mobilità delle truppe diffuse rapidamente il contagio. La fine della Grande Guerra e la smobilitazione fecero da amplificatore, ma la mobilità di allora non è paragonabile alla odierna facilità, velocità e intensità di movimento a breve, medio e lungo raggio sul pianeta. “Un passeggero infetto vola da Wuhan a Milano, un virus informatico attacca Internet, i sub-prime nel Midwest degli Stati Uniti innescano una crisi economica globale”: il mondo odierno non è molto resiliente, secondo Ian Goldin della Università di Oxford.

La pandemia ha messo in crisi le mutue dipendenze globali. Quando gran parte della produzione e in particolare della produzione asiatica si è fermata, all’inizio del 2020, gli effetti sulle catene di approvvigionamento si sono fatti rapidamente sentire. Il flusso di materie prime e lavorati che alimenta il commercio globale si è prosciugato. I porti europei hanno perso fino a metà dei loro traffici e, senza approvvigionamenti, la produzione industriale ha subito un brutto colpo. A causa delle misure europee di contenimento del coronavirus poi, i lavoratori bengalesi del tessile hanno perso ogni mezzo di sussistenza.

Per Noam Chomsky, l’attuale pandemia è un altro enorme e colossale fallimento della versione neoliberista del capitalismo. Non ha torto, se i governi di tutto il mondo avevano destinato mediamente il 6% della spesa pubblica agli eserciti e meno di un centesimo alla prevenzione delle pandemie, nonostante questa minaccia sia ben più grave. A livello internazionale, il bilancio della Organizzazione Mondiale della Sanità non arriva a quello di un grande ospedale americano. La crisi pandemica ha messo a nudo questo strabismo; ma ha anche dimostrato a chi la pensa come Chomsky che, quando è in gioco l’interesse nazionale, le risorse si possono trovare, riallineando i bilanci, come testimonia il rapido sviluppo dei vaccini.

Per i liberisti più incalliti, l’innovazione tecnologia e la cooperazione economica globale avrebbero offerto gli strumenti per prevenire dove possibile, contrastare dove necessario la diffusione del morbo. Chi affermava nel febbraio del 2020 che la domanda di alcuni prodotti (come le mascherine) non derivasse da una vera necessità di misure igieniche, ma riflettesse in realtà il panico che si stava diffondendo, aveva tristemente torto. Con grande ritardo la produzione di questi presidii (mascherine, disinfettanti, …) si è allineata alla domanda e la mano pubblica è dovuta intervenire a stimolo del mercato. Invero, l’efficacia delle vaccinazioni nei paesi avanzati dà ragione a chi guardava con fiducia alla tecnologia, ma la mano pubblica è stata fondamentale sia per la ricerca, sia per lo sviluppo industriale dei vaccini.

Se le mutue dipendenze globali vanno in crisi durante una pandemia, bisogna riportare la produzione a scala locale, a garanzia della popolazione anche in tempi di crisi? Le aziende stanno diversificando le loro catene di approvvigionamento, intensificando gli sforzi di digitalizzazione, ripensando ciò che è meglio produrre a casa propria e ciò che può essere esternalizzato. In Germania, per esempio, i fondi pubblici hanno incoraggiato la produzione interna dei dispositivi di protezione al fine di garantirne la rapida disponibilità, oggi e in futuro.

Per la maggior parte delle aziende europee, tali misure renderebbero la produzione assai più costosa, se adottate su larga scala a ogni bene di consumo. E la disponibilità di tali beni meno alla portata di tutti. La globalizzazione è, per molti versi, la causa dello sfruttamento e dell’ingiustizia sociale dopo il periodo d’oro dello Stato del Benessere, i Gloriosi Trent’anni del dopoguerra. Ma è anche una strada senza ritorno.

Se i paesi in via di sviluppo dovessero perdere ordini enormi senza alcuna compensazione, il risultato sarebbe disastroso. Secondo Ian Goldin – coautore di The Butterfly Defect: How Globalization Creates Systemic Risks, and What to Do about It – molte più persone morirebbero di fame che di pandemia, se uno scenario di questo tipo dovesse concretizzarsi. E come si potrebbe affrontare una simile catastrofe? Questa crisi insegnerà qualcosa? Porterà cambiamenti positivi? Per esempio, una più equa divisione del lavoro, consumi più coscienziosi, meno inquinamento e più responsabilità sociale?

Durante il confinamento sanitario anche la frazione ricca del pianeta ha dovuto improvvisamente vivere con meno, imponendosi un nuovo senso del limite. Quando l’incubo sarà finito, l’umanità si orienterà verso un nuovo modello di vita e, quindi, di consumo? Una eventuale riduzione del consumo superfluo si tradurrà in una maggiore partecipazione di chi consuma ancora molto poco?

Gran parte delle misure di rilancio che vengono intraprese, negli Stati Uniti e in Europa, sembrano sorde alle riflessioni critiche sul modello economico e sociale di riferimento. E, probabilmente, il mondo farà ogni sforzo per dimenticare in fretta questa parentesi, per ricostruire il futuro di una volta. Così accadde dopo la pandemia spagnola di cent’anni fa. L’esito dell’oblio non fu del tutto entusiasmante se, dopo l’ebbrezza dell’età del jazz, il mondo cadde nella Grande Depressione e fu poi catapultato nella Seconda Guerra Mondiale.

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